Verrà primaveraEshkol Nevo e la sfida degli intellettuali che non abdicano

A un mese dalla strage islamista del 7 ottobre contro Israele, la nuova unità dello Stato ebraico rappresenta una raccolta di forze di tutto un popolo consapevole del compito che ha per sé e per il bene dell’intero Medio Oriente

AP/Lapresse

Israele vincerà questa guerra. Non può perderla, perché perderla significherebbe chiudere con la Storia. Come e quando vincerà è da vedere, ma vincerà: questo è quello che pensano tutti i cittadini israeliani. Questo è il senso più profondo, intriso di tragicità, del magnifico articolo di Eshkol Nevo apparso ieri sul Corriere della Sera. Nevo, come si sa, è un grande della letteratura israeliana. Come Abraham Yehoshua, da poco scomparso, scrive cose profondissime con leggerezza cristallina: “Nostalgia”, “Tre piani”, “Neuland”, l’ultimo “Le vie dell’Eden” e soprattutto (per noi) il capolavoro “La simmetria dei desideri” sono grandi romanzi.

Come in questi libri, il racconto di Nevo di questi terribili giorni si sgrana nella sua semplice crudezza: ed è un dipanarsi di scene e concetti drammatici, di dolore indicibile e infatti come implicito in ogni parola. Ha appreso del massacro del 7 ottobre a Torino, dove svolge il suo lavoro per la scuola Holden. Immaginate di essere a migliaia di chilometri di distanza dal vostro Paese dove in un normalissimo giorno di ottobre sono state massacrate millequattrocento persone.

Come si è detto da qualche parte, ogni israeliano conosce come minimo una persona che è morta o è stata rapita o ferita, o un familiare o un amico che ha avuto un lutto. Bisogna scuotersi. Lo scrittore torna in Israele. Ovunque dolore, strazio. Qua e là però appaiono puntini di vita, segni di normale bellezza. Le parole, l’amicizia, la solidarietà germinata dallo stringersi in dieci metri quadrati di rifugio. Dei cioccolatini nel frigo lasciati da una famiglia riparata in un albergo. Dell’acqua fresca da una bottiglia. Stare con gli altri e ricordare cose piacevoli.

Si tratta di parare colpi micidiali, l’amico che è morto, altri amici un tempo gioviali che non sorridono più. L’immanenza della tragedia epocale ovunque. È un dolore che si mescola alla paura di cosa succederà: un altro 7 ottobre, questo no, ma che ne sarà dei soldati, degli ostaggi? Che ne sarà di Israele? Nevo scrive: «Rialziamo la testa consapevoli che non abbiamo altro posto dove andare». Ecco, questa è Israele: non sapere dove altro andare. Perché è stata costruita apposta come l’ultima fermata di tutte le sue mille diaspore.

È l’esatto contrario del sentimento degli americani – going away from here – a superare ogni frontiera: ad andarsene. Gli israeliani no, senza Israele tornerebbero a essere coriandoli nel mondo come nei secoli passati. Quindi è naturale che abbiano la paura e la consapevolezza di perdere l’identità, cioè tutto. È da questa acquisizione generale che scaturisce l’unità del Paese ebraico: «Le organizzazioni che protestavano contro il governo hanno ridiretto la loro energia, attività e intraprendenza per sostenere chi è partito per combattere».

Forse noi sottovalutiamo questo aspetto perché applichiamo a Israele le nostre attitudini perennemente litigiose e stentiamo a cogliere la nozione profonda dell’unità di un popolo, noi italiani che non siamo mai stati totalmente uniti.

«Mentre scrivo questo diario, mia moglie insieme a mia figlia preparano vaschette di cibo da mandare a chi combatte a Gaza»: come se fossero tutti al fronte. Piano piano, dopo il Dolore e l’Unità del popolo, come in un’ascesi laica, arriva il grande balzo dell’articolo di Nevo: ecco l’accettazione della sfida della Storia, la clamorosa raccolta delle forze di tutto un popolo consapevole del compito che ha per sé e per i propri figli e, non ultimo, per il bene generale della regione. Anche dei palestinesi. È la parte politica del pezzo: «Perché questa azione possa avere un lieto fine, Hamas non ne può fare parte. Chi spera, come me, nella pace del Medio Oriente, deve augurarsi una inequivocabile, rapida sconfitta di Hamas in questa guerra. Chi pensa, come me, che i palestinesi abbiano diritto all’autodeterminazione, deve sperare che questa organizzazione terroristica, più micidiale dell’Isis, smetta di rappresentarli».

Ciò detto, non si può negare a nessuno il diritto, e in un certo senso il dovere, di sognare: «Primavera. La guerra è finita. Gli ostaggi sono stati rilasciati. Hamas non usa più Gaza come base per il terrorismo. Ci sono nuovi accordi di sicurezza e anche un orizzonte politico. Il primo ministro Benjamin Netanyahu si è dimesso. Lo sostituisce un leader più coraggioso, più attento, che ha una vera visione per questa regione. Gli abitanti ai due lati del confine tornano alle loro case distrutte e iniziano a ricostruire». È l’agognato due popoli due Stati. Il sogno di Eshkol Nevo finisce così, come un’anima di resurrezione e di avvento della più bella normalità: «Io parto per Torino, con il cuore in pace. La sera sento le campane della chiesa, non più le sirene d’allarme». Verrà primavera, ci dicono da Israele.

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