E così lo sfoglio della cipolla ha portato al nucleo malandrino, e questa volta personale, di Aboubakar Soumahoro: che non deve più vedersela con le borsette di lusso della moglie, con i mastruzzi della suocera, con il resort in Ruanda in difetto di Tari e con le mutande griffate della prozia. No, adesso il trionfo della legalità repubblicana sul «talentuoso ivoriano» (così, preveggente, lo definiva la stampa coi fiocchi già sul nascere del “caso”) avviene non più per via parentale ma tramite l’investigazione del contegno pre-elettorale del candidato, cui si addebitano erroneità di rendicontazione e giustificativi di spesa improbabili.
Il tutto, ovviamente, a guarnizione della più generale e squalificante accusa: già scodellata un anno fa ma ora rinvigorita dalle notizie sui provvedimenti cautelari ai danni della cerchia familiare e, appunto, sull’avvio di un procedimento che potrebbe condurre alla destituzione parlamentare del deputato con gli stivali ‘ncretati. Quale accusa? Di aver fatto bensì carriera nel nome e sulla pelle dei migranti: ma appunto, e oltretutto, in questo modo increscioso, e cioè chiudendo gli occhi sulle creste che la guapa in Vuitton faceva sui soldi destinati ai poveretti e poi, lui stesso, finanziando la campagna elettorale con i blood-santini che gli hanno assicurato il seggio.
È una provvidenza, insomma, che la giustizia giornalistica prima, e ora quella tribunalizia, facciano piazza pulita del clan Soumahoro: una provvidenza per la legalità e per la pubblica economia e, soprattutto, una benedizione per i migranti i quali, sottratti alle angherie di quella banda, potranno tornare a essere trattati con ogni cura com’è successo sempre e ovunque in questo Paese.
Un solo particolare, in questo quadro di giustizia in via di ripristino, è incoerente. Ed è questo: che già solo prendendo quest’ultimo anno, già solo considerando quel che è successo nei fatti (sulla stampa, no) da quando è scoppiato “il caso Soumahoro”, la Repubblica italiana è stata condannata non si sa più quante volte dalla giustizia europea e domestica per essersi resa colpevole di gravissime violazioni dei diritti dei migranti, le violazioni di cui non si parla perché non le ha commesse una furbacchiona di colore ma il sistema carcerario in cui consiste la politica di accoglienza secondo il protocollo nazionale.
Il bovero negro issato sul palco Ruspa&Ordine per fargli dire che i Soumahoro non lo pagavano va naturalmente benissimo: non altrettanto il ragazzino di tredici anni sbattuto, in violazione di qualsiasi regola, in strutture inadatte e dedicate ai grandi; non altrettanto il ventenne, qui da quando ne aveva quindici, che ha preso a studiare e a lavorare regolarmente ma deve essere rispedito in Tunisia perché, se rimane, va a rotoli la sicurezza del Paese; non altrettanto le centinaia, le migliaia di immigrati che senza nessuna sollevazione della stampa investigativa condividono residenze di fango e lamiera con eserciti di blatte e pantegane, ma accidenti senza poter lamentare che quel degrado è il frutto degli sperperi del manipolo di affamatori in ghingheri. Ma sono dettagli, e il punto è un altro. Come si permetteva questo qui di maltrattare gli immigrati? Era forse di ceppo italico?