In quel simulacro di dibattito pubblico che sono le sequenze di tweet e di post e di storie sui social network, ieri è stato molto apprezzato l’intervento di Barack Obama su ciò che sta succedendo in Israele e nella società occidentale. L’ex presidente americano, con quel suo ormai desueto ma irresistibile argomentare problematico, ha detto parole di buon senso sulle responsabilità di entrambi i protagonisti del conflitto mediorientale, sulle nostre complicità e sull’inutilità, per non dire di peggio, della militanza social imperniata sul farisaico virtue signaling per cui ci si sente in dovere di segnalare pubblicamente la propria posizione sull’argomento in tendenza sui social.
Ascoltare la profondità e la complessità del pensiero di Obama è balsamo per cervelli ormai ridotti a ragionare per meme e cori da stadio, ma quindici anni esatti dopo la favolosa elezione del primo presidente nero degli Stati Uniti va detta qualcosina in più sul suo operato, in particolare sulla sua politica estera, perché gran parte del caos che stiamo vivendo adesso è il prodotto di scelte compiute durante i suoi due mandati alla Casa Bianca.
Premesso che se fossi stato un cittadino statunitense avrei votato Obama sia contro l’eroe americano John McCain nel 2008 sia contro uno statista sottovalutato come Mitt Romney nel 2012, il quarantaquattresimo presidente degli Stati Uniti è stato uno dei peggiori leader del mondo libero della nostra epoca. Lo status di peggiore ovviamente nessuno potrà mai toglierlo a Donald Trump, il primo presidente anti americano della storia degli Stati Uniti, ma al di là dei modi da ciarlatano e di un’ambigua e non ancora spiegata complicità con Mosca, la politica estera di Trump per molti versi è stata in continuità con quella di Obama (l’eccezione è il Medioriente, ma ci torniamo).
Se Trump è stato isolazionista, nazionalista e impegnato a far saltare il reticolo di alleanze e istituzioni internazionali su cui si è basata la leadership americana dell’Occidente, Obama ha governato da elegante amministratore del declino americano, che non è una condizione oggettiva dettata dagli Dei all’America, ma una precisa scelta politica volta a rinunciare al ruolo di guida del mondo libero, rendendosi al massimo disponibile a guidarlo dal sedile posteriore («leading from behind»).
L’Amministrazione Obama è entrata in funzione dopo la débâcle politica, più che militare, irachena orchestrata da George W. Bush e da una maggioranza bipartisan dopo le stragi islamiste dell’11 settembre 2001. Per allontanarsi da quello schema, Obama si è fatto guidare dall’idea del disimpegno americano, non solo da quel preciso quadrante geopolitico, ma anche da quello più tradizionale europeo e mediorientale.
Obama ha scelto di fare perno sull’Asia («pivot to East Asia») per motivi geopolitici ed economici, ma anche per le ragioni anagrafiche e culturali di una nuova generazione di leader americani, democratici e repubblicani, cresciuta senza quel legame familiare e storico con il vecchio continente europeo forgiato nelle battaglie contro i totalitarismi del Novecento. Il mondo dei cold war warriors sembrava finito ai tempi di Obama, da archiviare, e si credeva illusoriamente che non ci fosse più bisogno di un poliziotto del mondo.
Così Obama ha ridotto il numero dei soldati nelle basi americane in Europa, ha fermato il progetto di scudo missilistico europeo in Polonia e Repubblica Ceca che avrebbe tenuto a bada l’Iran e la Russia, ha abbandonato la Georgia alle grinfie di Mosca non accorgendosi del progetto imperialista di Putin, non ha mosso un dito quando la Russia ha invaso anche la Crimea e il Donbas, ha sottovalutato la nascita e la penetrazione dell’Isis nelle aree abbandonate dal ritiro dell’esercito americano, ha guidato dal sedile posteriore l’intervento militare in Libia e, non intervenendo nemmeno di fronte alle stragi con le armi chimiche, ha consegnato la Siria alla Russia non curandosi delle atrocità commesse da Assad e da Putin, del dramma delle migrazioni in Europa e delle conseguenze populiste e autoritarie che si sarebbero create nei paesi democratici suoi alleati.
Obama, anzi, ha promosso l’idea di un «reset» con la Russia, condonando la strategia imperialista putiniana e di diffusione del caos in Occidente, e soprattutto facendo credere al dittatore di Mosca che le democrazie liberali, deboli e divise al loro interno, non avrebbero mai più avuto la forza morale, civile e militare di affrontare altri conflitti.
La gestione a Washington del declino americano è stata interpretata a Mosca come una resa americana. Tanto più che la Casa Bianca, malgrado ne fosse pienamente al corrente, non ha fatto niente, ma proprio niente, per fermare l’ingerenza russa sul processo democratico americano, lasciandola inquinare fino a far eleggere Trump.
Obama, infine, ha spostato l’asse geopolitico mediorientale dall’Arabia Saudita sunnita all’Iran degli Ayatollah sciiti, con la conseguenza che il regime islamico di Teheran ha ripreso a respirare economicamente, a lavorare alla costruzione di un arsenale atomico, a opprimere la popolazione civile e a riannodare il filo della campagna islamica per la distruzione di Israele (ieri, a proposito, la Guida Suprema della teocrazia iraniana ha ricevuto a Teheran il gran capo di Hamas, e chissà che bell’incontro tra due anziani reazionari, misogini e assassini che vogliono estendere il loro regno delle tenebre ovunque nel mondo).
Fidandosi degli Ayatollah, Obama non solo ha offerto una carota ai nemici dell’Occidente e di Israele, ma ha anche bastonato gli alleati israeliani, i quali per reazione, e per timore di non essere più protetti da Washington, si sono radicalizzati come mai nella storia dello Stato ebraico, con i risultati visti in questi anni. (Trump, invece, nel 2017 ha rimesso nell’angolo l’Iran, consegnando la politica mediorientale ai sauditi chissà per quali interessi personali e lasciando via libera totale agli estremisti israeliani già radicalizzati da Obama).
Quindici anni dopo, le parole di John McCain sulla Georgia, sull’Isis e sull’Afganistan, e poi quelle di Mitt Romney sulla Russia «senza dubbio il nostro nemico geopolitico principale», ridicolizzate come retaggi della Guerra Fredda da Obama e dai suoi giovani consiglieri, risuonano come un’analisi geopolitica più accurata del mondo in cui vivevamo allora e oggi.
La storia ovviamente non si fa col senno di poi, ma non si può nemmeno sorvolare sul fatto che qualcuno queste cose le ha puntualmente previste, avvertendo Obama e i suoi che il rischio sarebbe stato esattamente quello che stiamo vivendo oggi, sia ai confini orientali sia ai confini meridionali dell’Europa.