Pensi di andare in Valle d’Aosta, ma in realtà stai andando anche un po’ in Africa. Non è uno scherzo, ma il risultato di ricerche agronomiche attraverso le zone vinicole regionali. Così, questo territorio dal clima (ormai per molti) invidiabile rivela una particolare complessità di terreni, che si somma alla ricchezza di vitigni autoctoni e a una storia vinicola importante, più legata alla Francia che all’Italia.
Se nel resto della penisola il vino sembra sempre troppo, qui se ne produce troppo poco, tanto che per i mercati non è sufficiente. Una sfida con cui si stanno confrontando i produttori, mentre, forti di decenni di studi e reimpianti, lavorano per recuperare il gap lasciato dall’abbandono delle montagne a cavallo tra diciannovesimo e ventesimo secolo.
Continenti, mangrovie e cicatrici
«Se volete che vi racconti la storia del vino in Valle d’Aosta, devo partire da centocinquanta milioni di anni fa. Qui nel Giurassico ci troviamo sotto un enorme oceano primigenio, che lambisce la costa di un antichissimo continente europeo, più o meno in corrispondenza di La Salle. Ecco, immaginatevi una costa ricoperta da mangrovie a La Salle». La prende larga e ha i suoi motivi, Rudy Sandi, agronomo specializzato in elaborazione dei dati territoriali, che da anni studia la storia e la geologia del territorio.
«Nel tempo il continente africano si avvicina e cento milioni di anni fa, nel Cretaceo, si scontra con il continente europeo e con quello oceanico». Così circa 3.500 chilometri di costa europea e africana si accartocciano fino a ridursi a quattrovento chilometri, formando la catena montuosa delle Alpi. «Il punto in cui l’urto è più intenso è proprio qui e genera cicatrici alte migliaia di metri, tra cui svettano il Monte Bianco e il Monte Rosa. È qui che lo scontro dà origine alle conformazioni geologiche più complesse».
Una sintesi perfetta di questa complessità la si trova ad Aymaville, dove in soli tre chilometri lungo il corso della Dora Baltea si arrivano a rilevare sei strati geologici differenti, tanto che certi appezzamenti comprendono al proprio interno i resti di tutti e tre gli antichi continenti, come ad esempio a Saint-Léger, dove la vite si coltiva dal 1400.
Oltre alla variabilità della composizione dei terreni, c’è poi da considerare la variabilità di altitudini. Un esempio lo fornisce la Cave des Onze Communes, cantina cooperativa di Aymaville, «I nostri vigneti sono distribuiti dai centocinquanta fino a novecento metri sul livello del mare», dice André Gerbore. Il dislivello è importante per soli settantatré ettari di vigneto e ogni vendemmia si trasforma in un sali e scendi continuo.
Una storia più francese che italiana
“Ma con gran pe-na le re-ca giù”. Avreste mai pensato che questa filastrocca, insegnata a scuola per ricordare nomi e sequenza orografica delle Alpi italiane, potesse contenere un indizio interessante sulla storia del vino in Valle d’Aosta? «Una delle prime citazioni del vino in questa regione ha a che fare con le alture valdostane, le Alpi Pennine, che devono il nome al dio pagano Penn, adorato dalle popolazioni locali e, successivamente, dai Romani, che lo rinominarono Giove-Pennino» spiega Rudy Sandi. «Chi riusciva a oltrepassare i valici lo ringraziava anche con il vino, ce ne fornisce prova un’iscrizione romana sull’offerta di un pretoriano a Pan, di almeno duemila anni fa».
Il primo grande spartiacque, che ancora oggi influenza la vitivinicoltura in Valle d’Aosta, è rappresentato nel 476 d.C. dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, in seguito alla quale la storia di questa regione inizia a seguire un percorso legato più alla Francia che all’Italia. «Era l’unica regione non francese del regno burgundo. I monaci benedettini che operavano in Francia erano anche quelli che guidavano la viticoltura valdostana. A Sarre, ad esempio, c’era un potentissimo monastero che dipendeva direttamente dalle abbazie di Beaune e di Cluny», spiega Sandi. E proprio dagli archivi di chiese e monasteri, emergono informazioni interessanti. Si apprende ad esempio che nel 1388 i nomi e la collocazione di certi appezzamenti erano gli stessi di oggi e che i terreni venivano suddivisi con un sistema simile a quello francese, in base ai terroir più vocati.
Poi ci sono i vitigni
In Valle d’Aosta si contano oggi diciotto vitigni autoctoni, in un territorio che si snoda per cinquantasei chilometri lungo il corso della Dora (uno ogni tre). Alcuni di questi non sono imparentati con nessun altro vitigno al mondo. Unicum genetici, come il Petit Rouge, segno di una viticoltura che si è sviluppata per bastare a sé stessa.
Il Fumin, generalmente utilizzato in uvaggio assieme ad altri, detiene il record della citazione più antica, in un documento risalente al 1711. Questi e molti vengono inseriti nel “Saggio sulle viti e sui vini della Valle d’Aosta” che lo studioso piemontese Lorenzo Francesco Gatta scrive nel 1836, catalogando i vitigni più adatti a ciascuna zona.
«In fondo poi, cosa significa autoctoni?», riflette Vincent Grosjean, presidente del Consorzio vini Valle d’Aosta. «Molti vitigni sono stati introdotti qui ben prima del ventesimo secolo, si sono adatti e sono evoluti in base al territorio e alle sue caratteristiche. Oramai sono distanti dai loro fratelli coltivati in qualsiasi altra zona». E ha ragione, perché abbandonato il (sacrosanto, per carità) feticismo da autoctono a tutti i costi, gli assaggi di certi Pinot Noir, Syrah e anche Nebbiolo, riservano sorprese succulente.
Vero è, che in uno spazio piccolissimo questa regione sa esprimere una varietà incredibile di possibilità, tutte da preservare e, in qualche caso, ancora pienamente da recuperare. Oggi la denominazione Valle d’Aosta comprende ventotto diverse tipologie di vino, tra cui alcuni in uvaggio e tanti da vitigni vinificati in purezza (o almeno all’ottantacinque per cento).
Il vino non basta
Comunicare così tanti vini non è semplice, ma in questo caso è difficile anche farli assaggiare. Sì, perché la prima grande sfida per questa regione vinicola è quasi in controtendenza rispetto alla maggior parte delle altre zone italiane. «Facciamo troppo poco vino», afferma Didier Gerbelle, alla guida della cantina di famiglia. In un contesto in cui i consumi di vino stanno calando, sia in Italia che nei principali mercati stranieri, suona strano sentire qualcuno che di vino desidera produrne di più, ma è proprio così ed è difficile fare di più. La denominazione oggi comprende 385 ettari vitati in tutto e produce circa due milioni di bottiglie l’anno. Tanto per fare un paragone celebre, quelli iscritti a Brunello di Montalcino sono 2.100, all’interno del solo comprensorio comunale di riferimento (che non è neanche il più vitato d’Italia).
Molto vino viene venduto sul territorio. Per il resto d’Italia e per l’export ne rimane poco e, senza regolari rifornimenti, un ristoratore può anche decidere di toglierti dalla carta.
Se la quantità è piccola, non si dovrebbero alzare i prezzi? Il ragionamento è un po’ più complesso. «Se il tuo vino è molto richiesto, puoi utilizzare la leva del prezzo. Noi però siamo in una fase conoscitiva dei nostri vini. Aumentare i prezzi a un mercato che si sta costruendo non è semplice, senza contare che i vini dovrebbero restare accessibili» spiega Giulio Corti della cantina Les Crêtes. «Prendiamo un Petit Arvine, oggi ne troviamo in carta anche a trenta-quaranta euro la bottiglia. Aumentare i prezzi da lì significherebbe andare verso un consumatore con disponibilità economiche diverse, magari non è neanche il tipo di consumatore che va in cerca di nuovi territori o vini da conoscere». Si rischia, inoltre, di scontrarsi con brand già ben posizionati su fasce più alte.
Ricostruire un tassello
Manca un tassello. Oggi gli ettari della denominazione sono meno di quattrocento, ma nell’Ottocento erano intorno ai quattromila, circa dieci volte tanto. C’è una ragione, perché nel mezzo ci sono stati una serie di passaggi storici e sociali che hanno causato l’abbandono delle montagne da parte degli agricoltori, emigrati in cerca di fortuna, innescando così la perdita di terreni e di vitigni. «È importante capire cos’è successo tra la fine del 1800 e l’inizio del 1900», dice il presidente Grosjean. «L’unità d’Italia ha significato uno spostamento dei confini verso la Francia e la Svizzera e questo ci ha fatto perdere una parte dei nostri mercati. Eravamo in un periodo di crisi. Come da tutte le valli montane d’Italia, anche noi abbiamo iniziato a emigrare dappertutto. Il vino era diventato un alimento, in più hanno iniziato ad arrivare da Sud vini a prezzi molto più bassi», racconta. Alle difficoltà economiche si sommavano inoltre quelle agronomiche, dovute alla diffusione della fillossera.
«Fortunatamente alla fine degli anni Sessanta c’è stata una riscoperta della viticoltura e pian piano è iniziata una ripresa a partire dal reimpianto dei vigneti fino alla riscoperta dei vitigni autoctoni. Adesso siamo all’inizio di una nuova strada. Iniziamo a lavorare con delle vigne che hanno venti-trent’anni e sono molto fiducioso per la viticoltura valdostana», afferma il presidente e ne ha tutte le ragioni. C’è una generazione giovane di produttori che sta lavorando duramente, per recuperare un tassello di due generazioni e ricostruire il ponte tra il passato francese e il presente della viticoltura. I vini sono ottimi e molti potrebbero trarre beneficio da certe evoluzioni dei consumi in termini di gusti, come ad esempio dal fenomeno “pinosophy”, oltre che dalle condizioni climatiche. Ecco, al di là del “piccolo è bello”, forse in questo caso qualche ettaro vitato in più non guasterebbe.