Bevilo fresco Pinosophy

Il Valpolicella da vino local diventa un vino globale, in grado di attrarre nuovi consumatori e di scoprirsi capace di abbinamenti inconsueti. Con grande attenzione alle tendenze mondiali

Ho sentito per la prima volta parlare di Pinosophy dal primo master of wine italiano, Gabriele Gorelli, a una degustazione di vini di Valtellina. Mi ha subito colpita, perché mi pareva un’espressione in grado di cogliere una tendenza. Ma le cronache narrano che il termine sia stato coniato dal nuovo master wine, Andrea Lonardi, che ha raccontato come questa moda internazionale sia ormai un must per i produttori e per i tantissimi appassionati attenti ai trend del vino.

Bere vini “che assomigliano a un Pinot nero”, considerato uno dei vitigni più eleganti e sicuramente uno dei più apprezzati in questi anni è una tendenza, una storia, una moda, ma anche una certezza. È il motivo per cui nelle carte dei ristoranti che frequentiamo compaiono sempre di più vini rossi leggeri, freschi, agili. Certo è che quello che per noi è tendenza oggi, per chi il vino lo produce deve essere premonizione o intuito qualche anno fa: perché il vino si fa una sola volta all’anno, ma soprattutto ha bisogno di anni per arrivare a noi in tavola. Oltre alla pazienza, per farlo bene ed essere sul pezzo bisogna quindi possedere un bel grado di follia, un po’ di intraprendenza, un tocco di visione e sicuramente arti divinatorie. Lonardi probabilmente li aveva tutti, questi ingredienti, quando nel 2014 ha deciso di lavorare al Valpolicella: l’annata, si sa, è stata particolarmente problematica e non ha fatto sconti a nessuno in vendemmia. Per questo, anche un grande marchio come Bertani ha deciso di non produrre Amarone Classico. Con l’intera produzione di uva a disposizione, il nuovo Master of Wine appena proclamato, ha deciso di puntare sul vino meno celebre, celebrando in bottiglia l’anticonformismo della Valpolicella.

Intuendo, forse, che un vino più facile da bere, che si presta bene all’abbinamento poteva fare la differenza, qualche anno dopo. Ha avuto il coraggio di pensare a un vino locale ma capace di trovare una visione internazionale di fianco a cucine asiatiche e del Medio Oriente, in grado di funzionare, con la sua nota pepata e salata in bocca, anche su cucine non convenzionali e meno di tradizione.

Aprendosi così non solo a nuovi consumatori italiani, ma ai tanti bevitori internazionali che cercano vini dal carattere leggero ma dall’eleganza raffinata, come Germania, Inghilterra e Stati Uniti, fino al Giappone, primo ad aver sposato questa filosofia. Inoltre, la comunità di amanti del genere è facile da targettizzare, con i ristoranti fusion e i sommelier che devono abbinare i vini a una cucina più delicata e attenta, più “costruita” culturalmente.

Si può fare la magia solo in Veneto? Assolutamente no: ci sono tante zone italiane che si prestano bene alla “pinosophy”: l’Etna, ormai sempre più in spolvero nelle sue tante varianti, il Piemonte con il progetto Langhe Nebbiolo, ma anche la Valtellina, zona che potrebbe essere pronta a fare vini di questo tipo. Certo, non tutto può diventare Pinot, e solo alcune zone e alcune parcelle sono adatte a questo tipo di trasformazione. Ma riuscire nella magia può aiutare a cambiare visione, a riconquistare quote di mercato e a riportare anche i bevitori più giovani a interessarsi a grandi zone considerate oggi troppo “cariche” e poco adatte a un consumo più fresco e leggero.

La temperatura di servizio è determinante: quell’indicazione “chambrée” del passato oggi significa cantinetta e qualche grado in meno, perché anche i gradi a cui versiamo nel calice certe bottiglie sono in grado di fare la differenza nella piacevolezza della bevuta.

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