Lo specchio della realtàL’ultima stagione dei grandi casi di cronaca nera

In “Tenebre italiane” (Solferino), Marco Imarisio racconta storie della provincia profonda, drammi familiari, retroscena, tradimenti, prove del Dna, indizi e sospetti, confessioni e ritrattazioni, protagonisti e comparse di uno spettacolo in prima serata tv. Un girone infernale, dal quale non siamo ancora usciti

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Con la cronaca nera, si sbaglia. Nell’autunno del 1999 eravamo nel pieno della psicosi da ecstasy. Lconda era partita da lontano, con qualche generico articolo della primavera appena trascorsa sui pericoli di una nuova droga, all’epoca completamente sconosciuta in Italia. Seguirono gli spot estivi del ministero dell’Interno che mettevano in guardia sull’ennesimo «flagello da discoteca», si usavano ancora queste frasi ad effetto, e una serie di allarmi lanciati con una certa insistenza.

Ma alle 4.30 di domenica 31 ottobre, un operaio diciannovenne muore all’ospedale di Iseo. Era stato trovato privo di sensi poche ore prima, davanti a una celebre discoteca della provincia di Brescia. Il decesso venne attribuito all’assunzione di una pasticca di ecstasy. Era ormai diventata la «droga-killer», come da titolo di un giornale dell’epoca, nel quale si dava conto della confessione dello spacciatore, che per altro era uno dei migliori amici della vittima. Quella tragedia fu l’inizio di una lunga serie di episodi simili, perché, come molte altre cose, anche il racconto dei fattacci segue un proprio ciclo, tendendo a riprodurre lo stesso caso con una certa regolarità. Se un figlio uccide un genitore, nei mesi seguenti le cronache si riempiranno di giovani assassini o aspiranti tali dei loro presunti cari. Se un genitore uccide il figlio, ben presto si avrà la percezione di un aumento dei raptus di follia di madri e padri. Nella selezione delle notizie proposte ogni giorno da questure e caserme desiderose di farsi pubblicità, e sempre ben accolte dalle redazioni, l’offerta della cronaca nera è spesso modulata secondo la domanda del momento. Può non piacere, e senz’altro si tratta di un meccanismo sbagliato che contribuisce ad alimentare ossessioni o nevrosi di massa. Ma ancora oggi è spesso così che funziona. […]

La «droga-killer» aveva colpito ancora in una discoteca dalle parti di Vicenza. I quotidiani locali ne avevano scritto sostenendo che si trattava di ecstasy. I telegiornali lo avevano ribadito, citando fonti dei carabinieri. A quel tempo non vivevamo ancora nel rullo continuo delle notizie. Era preistoria. Nei giorni festivi, le redazioni se la prendevano comoda, avevano riflessi più lenti rispetto al resto della settimana. Fui chiamato alle undici del mattino. E così arrivai a destinazione in un momento di vuoto, poco dopo l’ora di pranzo. Quando dopo le prime ore di lutto non c’è più niente da dire, e tutti se ne sono andati via. Non era rimasto nessuno, davanti a quella villetta bianca a schiera, in fondo a un viale di case uguali, due piani e un giardino all’inglese, tutto intorno un panorama di magazzini, officine e piccole aziende, affacciate su campi coltivati. Citofonai senza troppe speranze. Mi rispose il padre della vittima.

Con mia grande sorpresa, il cancello si aprì. Sono passati tanti anni, e mi ricordo ancora gli occhi di quella persona di mezza età che stava dritta sulla porta. Nonostante il dolore, teneva lo sguardo fisso su di me. Mi chiese se volessi un caffè o un bicchiere d’acqua. Un uomo distrutto che cercava di darsi un contegno davanti a uno sconosciuto, il quale a sua volta cercava di non essere troppo invadente e al tempo stesso si sentiva quasi obbligato a una domanda impossibile da fare a un padre che ha appena perso un figlio, ammesso che ne esista una. Fu lui ad anticiparmi, togliendomi da un imbarazzo che confinava con l’angoscia. «Lo so cosa stanno dicendo i telegiornali e i suoi colleghi, ma ora le faccio vedere una cosa». Mi indicò la parte posteriore della villetta. C’era un piccolo capannone. «Mio figlio» disse «ha lavorato lì dentro con me dalle sette del mattino alle nove di sera, ogni giorno. Fianco a fianco. Io, lui e mio genero». Nessun altro. Preparavano e montavano serramenti. Era il suo unico figlio maschio. «Io so chi era, io lo conoscevo bene. Non era un estraneo, eravamo anche amici». Mi rivolse uno sguardo duro. Spiegò che l’unico suo vizio erano i pesi, si era anche costruito una palestra nella sua stanza. «Mio figlio non si drogava, e non è morto di droga.»

Lo ascoltai, in silenzio. La cronaca è fatta anche di suggestione, può capitare di sposare una tesi solo perché è frutto della confidenza di una persona coinvolta, di una conversazione che ci si illude di avere in esclusiva. Ma c’era una forza, nel modo in cui quell’uomo aveva detto quelle parole, che non era frutto solo del dolore. Non stava illudendo se stesso, non stava difendendo la memoria di chi aveva appena perso. Stava cercando con le forze che gli rimanevano di spiegare a un estraneo chi era davvero suo figlio, e quale fosse la verità sulla sua fine così improvvisa.

Dopo che mi ebbe congedato, chiamai subito il giornale. «Il padre mi ha detto questa cosa, forse ha ragione, forse non è come sembra». Nel pomeriggio, mi mandarono per mail il testo di una agenzia di stampa, che riepilogava la vicenda, unendola con un’altra accaduta a una ventina di chilometri di distanza. Ancora un malore dovuto all’ecstasy, per fortuna non mortale. Nel primo caso, quello che più mi riguardava, gli organi inquirenti confermavano la presenza di sostanze stupefacenti nel corpo del ragazzo, facendo riferimento alla diagnosi del decesso fatta al pronto soccorso dove era stato portato dai suoi amici, nella quale si parlava di «arresto cardiocircolatorio per verosimile esotossicosi da sostanze stupefacenti». Quel passaggio era sottolineato, come capitava una volta con le parti importanti dei dispacci. Insomma, il titolo doveva essere quello.

Anche perché non c’erano altre sponde a cui appoggiarsi, se non le parole di un padre, e cosa volevi che ti dicesse, poveretto. Dovetti ovviamente dare conto della versione ufficiale. Era da lì che si partiva. I carabinieri erano l’unica fonte e l’ecstasy l’unica ragione della presenza di un inviato in quella periferia veneta. Intanto, aveva avuto la precedenza la notizia più recente, quella del giovane in rianimazione, «strappato alla morte dai medici», con la quale avevo cominciato l’articolo. Poi descrissi l’incontro con il padre del ragazzo più sfortunato, dando spazio alle sue parole. Ma al capoverso seguente dovetti aggiungere che, «purtroppo», gli investigatori confermavano la versione della morte per droga. «Cocktail di cocaina e alcol stronca un altro ragazzo» era la porzione di titolo a lui dedicata, perché intanto era sorto il dubbio che non si trattasse davvero di ecstasy. Ero comunque in nutrita compagnia. «Vicenza, due notti di sballo assassino» titolò il più importante giornale della regione. «Cocktail mortale in discoteca» fu l’apertura di un altro grande quotidiano nazionale.

Passarono mesi, anni, altre storie, altra cronaca nera di maggiore impatto mediatico, non come quella morte in discoteca, finita nelle pagine «dietro» già quando accadde, come coda di un fenomeno sociale che poi tale non si rivelò. Sentivo, allora come oggi, che quel padre non mi aveva raccontato una illusione, ma una certezza. E mi dispiaceva molto averla dovuta dividere con la versione suggerita dagli inquirenti, che poi aveva ovviamente prevalso nella titolazione. Sono ricordi che un cronista si porta dentro. Non sono quasi mai l’importanza dell’evento o l’illusoria sensazione di raccontare la Storia con la esse maiuscola che rimangono impresse nella memoria, ma i singoli incontri, le cose che avresti dovuto scrivere e invece non lo hai fatto, le cose che non avresti dovuto scrivere, le persone che hai deluso e quelle magari sconosciute con cui hai condiviso un momento di intimità. A rileggere oggi quell’articolo, trovo imperdonabile la chiusa con il dito alzato, il severo monito contro ragazzi che all’epoca aveva- no pochi anni meno di me. Il vescovo di Vicenza che «sceglie con calma parole amare». E dice: «Gli unici maestri che questi ragazzi riescono ad accettare sono i loro compagni di sballo, e questa è una verità antica».

Nel novembre del 2003 arrivò in redazione la raccomandata da parte di uno studio legale. Allegava le sentenze di condanna già emesse contro direttori e giornalisti di altre testate per aver fatto pubblicare articoli dai contenuti analoghi a quello scritto da me sul «Corriere della Sera». E chiedeva un risarcimento in nome e per conto di quella famiglia. Solo allora, quattro anni dopo, venni a sapere che il padre di quel ragazzo aveva ragione. Suo figlio era morto per un insulto cardiaco. Suo figlio non aveva assunto droga. «Decesso per cause naturali in condizioni di apparente benessere» si leggeva nella consulenza medico-legale depositata nel luglio del 2000, a distanza di otto mesi da quella tragedia. I giudici riconoscevano che gli organi inquirenti avevano recepito, e subito girato alla stampa, aggiungo io, la diagnosi di decesso per «verosimile esotossicosi» raccolta presso il pronto soccorso. Ma aggiungevano una loro considerazione, simile a quelle dei molti che oggi riscrivono i grandi fatti di cronaca nera trasformandoli in una sorta di processo al giornalismo italiano. «Non è vero in particolare che le forze dell’ordine avessero potuto diffondere come autentica una notizia soltanto “verosimile”, e il fatto che gli stessi familiari, di fronte ai media che li interpellavano, avessero invocato l’eventualità di una somministrazione di sostanza da parte di terzi, non modificava certo agli occhi del cronista il quadro degli elementi obiettivi di cui poteva disporre nel redigere l’articolo».

Eccome se era vero, invece. Quella domenica, davanti a uno sparuto numero di giornalisti che avanzavano qualche timido dubbio sulle cause della morte di quel ragazzo, un capitano dei carabinieri si era detto «così sicuro da metterci la mano sul fuoco», aggiungendo che purtroppo ne aveva viste tante di storie così, «e qui abbiamo anche la prova scientifica». Avevo sbagliato io? O piuttosto era stata la tendenza delle fonti di dare in pasto ai media quello che vogliono, che stanno cercando? Si sbaglia, e si viene spesso aiutati a sbagliare. Ma bisogna esserci, per capire che il ghiaccio sul quale cammina chi scrive di fattacci è molto sottile. Quel che allora non sapevo è che stava per cominciare il decennio che avrebbe definito il modo in cui si racconta la cronaca nera. Fateci caso. Negli ultimi tempi abbondano i documentari, i podcast e le nuove inchieste su vecchi delitti, la maggior parte dei quali risalgono a un periodo compreso tra il 1998 e il 2010, e finiscono con la tragedia di Yara, l’ultimo caso di cronaca importante avvenuto prima che i social e la loro velocità prendessero il sopravvento, prima che tutto cominciasse a bruciare e a esse- re consumato in un attimo.

Dopo, sarà sempre più difficile capire cos’è la cronaca. Tutto diventerà più istantaneo, le domande dureranno poco ed esigeranno risposte immediate. Non sono mancati i casi importanti e simili a quelli del passato. Ciò che viene a mancare è il tempo, l’elemento necessario a far sedimentare, a indurre angoscia o sollievo. Oppure curiosità morbosa, che spesso, inutile nasconderlo, è una delle ragioni per cui certe storie attecchiscono più di altre. […]

Ma senz’altro in quel periodo vi furono degli eccessi, che in qualche modo hanno prodotto una sorta di format, abbattendo ogni steccato tra i fatti e il pubblico pagante. Tra vittime, carnefici e la loro platea. È stata l’ultima stagione dei grandi casi di nera, ma anche quella di un modo di raccontare talvolta sganciato quasi dalla realtà, e più vicino al reality. Forse la famosa frase di Dino Buzzati sulla cronaca nera «come straordinario specchio dell’Italia» era già superata all’epoca. Quello è stato il momento in cui si è compiuta una mutazione definitiva, creando un modello di informazione, tutto e subito, che poi si è rapidamente esteso ad altri settori della società italiana.

Da “Tenebre italiane. Storia terribile ma vera dei delitti che hanno cambiato il Paese”, Marco Imarisio, Solferino, 224 pagine, 16,50 euro