C’è da credere che la gran parte delle donne e degli uomini, giovani e meno giovani, che hanno partecipato alla manifestazione di sabato scorso «per Giulia e le altre donne vittime di violenza» non solo non condividessero, ma neppure conoscessero la piattaforma politica delle organizzatrici di “Non una di meno“, che hanno programmaticamente dirottato la piazza su Gaza e sul «genocidio in corso del popolo palestinese».
C’è però anche da credere che la grandissima parte delle donne e degli uomini, che hanno voluto partecipare a quell’happening di festa e di rabbia, abbiano risposto a un bisogno di presenza e di (auto)riconoscimento, che sarebbe troppo severo considerare gregario, ma sarebbe al contempo troppo generoso considerare politicamente alternativo a quello della piazza ufficialmente antisionista.
Certo non si poteva pensare che, tra quelle centinaia di migliaia di persone, i manifestanti indifferenti e ignari dalla piega grottesca data a una manifestazione «per Giulia» fossero capaci di contendere la questione femminista al monopolio ideologico intersezionalista, che riduce ogni conflitto di potere, compreso quello tra i sessi, a una forma di lotta di classe multilevel e quindi non si accende né di indignazione né di interesse verso ogni patriarcato tribale o barbarico che non sia giunto alla compiuta maturità capitalistico-borghese del «conquista e distruggi», e non abbia dispiegato fino in fondo il suo potenziale spregevolmente coloniale.
Questo spiega perché “Non una di meno” abbia ritenuto di non sprecare parole per il pogrom del 7 novembre e per le sevizie subite dalle donne israeliane – violentate, assassinate, vilipese, smembrate ed esibite come reliquie della sacra mattanza di Hamas – ma abbia ritenuto di allargare la polemica alla costruzione del Ponte sullo Stretto di Messina, punto di fatale coincidenza tra (si cita testualmente) la «lotta transfemminista intersezionale» e la «lotta ecologista e per la difesa dei territori».
Se l’egemonia culturale è la capacità di dirigere il discorso pubblico pur senza rappresentare maggioranze sociali, quella di “Non una di meno” è stata un’operazione di indubbio successo, non solo per la partecipazione di massa alla manifestazione, ma per l’assenza in quella piazza di una vera alternativa culturale e politica alla proposta dalle organizzatrici.
Del resto, come lo si poteva pretendere dalle centinaia di migliaia di convocate e convocati, trascinati dall’emozione di un caso di cronaca, dal tam tam della sua mediatizzazione voyeuristica e da un bisogno di protagonismo facile, poco compromettente e rigorosamente apolitico, come hanno raccomandato le organizzatrici per rendere quella piazza ancora più grande e più anonima?
Una maggiore consapevolezza e un più doveroso coraggio si sarebbe però potuto pretendere da tutti i partiti che hanno aderito alla manifestazione (PD, Sinistra Italiana, Verdi, Più Europa, Movimento 5 Stelle) e vi si sono immersi in una sorta di protettiva invisibilità, guardandosi bene sia dal contestare che dal condividere la sua piattaforma. Una scelta parassitaria e rinunciataria che dice molto della debolezza di quel che rimane del pensiero femminista della sinistra, fuori da quel settarismo ideologico che domina negli apparati culturali e mediatici del deep state artistico-letterario e giornalistico.
Se pure può apparire più coerente, anche la scelta di chiamarsi fuori da quella piazza, per non farsene intendenza, rappresenta però un vuoto di alternativa, quando non, come nel caso dei partiti sovranisti, una scelta per così dire contro-parassitaria per lucrare comodamente sulle contraddizioni, un po’ mostruose e un po’ ridicole, di un femminismo quarto-internazionalista di permanenti rivoluzioni immaginarie.
Peraltro, se si può accusare il femminismo woke di non essersi accorto, ad esempio, di “Donna, Vita e Libertà”, non si può certo assolvere chi si è limitato sul punto a muovere un’accusa agli altri, senza neppure immaginare una mobilitazione politico-culturale e senza darsi da fare in proprio per la bisogna. Troppo facile, anche questo.
Alle manifestazioni contro il regime degli ayatollah, nel pieno della repressione, c’erano solo qualche decina di militanti del Partito Radicale transnazionale e basta, come ammetteva onestamente e dolorosamente Concita Di Gregorio. Sono quelle piazze vuote dei mesi scorsi e quei silenzi nella piazza piena di sabato la fotografia dello stato della politica femminista in Italia.