I cimiteri sono fatti per i vivi, certo. Ma che suscitassero tanto interesse forse non succedeva dai tempi in cui l’opera del Foscolo “I Sepolcri” era un bestseller dell’epoca tale da suggerire l’idea di creare un cimitero Monumentale a Milano. Era la fine dell’Ottocento, da allora è trascorso parecchio tempo e se è vero che un certo fascino le città dei morti lo hanno sempre emanato, ora siamo di fronte a un fenomeno decisamente particolare. Perché Giulia Depentor, appassionata di cimiteri sin da quando era bambina, ha cominciato a raccontare le sue scorribande in quei luoghi di storia nel podcast “Camposanto” e nel giro di poche puntate ha scoperto che sono tantissimi gli appassionati della materia. Quaranta puntate per diciotto ore di registrazione le hanno regalato il titolo di “influencer dei cimiteri” e ora arriva in libreria uno spin-off di questa esperienza: una guida narrativa o un saggio in forma di itinerario dal titolo “Immemoriam” e pubblicato per Feltrinelli.
Prima domanda di rito: quando ha avuto inizio tutto questo?
«Tutto è nato durante il lockdown. In quel periodo vivevo a Berlino e non lavoravo, così avevo molto tempo a disposizione e andavo spesso a passeggiare nel vecchio cimitero ebraico: un luogo meraviglioso. Cercavo un podcast sui cimiteri e non ho trovato nulla, così ho deciso di farlo io. Negli anni avevo accumulato molte visite a cimiteri di tutto il mondo e per lavoro mi occupo di contenuti anche in formato audio (Giulia Depentor si occupa di marketing e comunicazione per grosse aziende, ndr). Così ho creato “Camposanto podcast” e il successo è stato veramente inatteso».
Cos’è successo?
«In tanti hanno cominciato a seguirmi, creando la comunità dei camposanter, nel lessico famigliare della community sono coloro che ascoltano il mio podcast e condividono la passione per le passeggiate cimiteriali: su Instagram ho quasi novemila follower, ma continuano a crescere. E a scrivermi ci sono addetti ai lavori come necrofori e tanatoesteti, ma anche appassionati e studiosi di genealogie o semplici appassionati che non osavano dichiarare la loro attrazione per i cimiteri… mi hanno scritto quasi per fare coming out! E, naturalmente, per ringraziarmi per aver sdoganato la passione».
Visualizza questo post su Instagram
Qual è il suo pubblico?
«Molto vario, tendenzialmente appartiene a una fascia di età compresa tra i trenta e i quarantacinque anni, in cui mi colloco anch’io. Ci sono amanti dell’arte, della storia, del soprannaturale. La prevalenza è di donne o di persone che si identificano nel genere femminile e sono molte le divulgatrici di storie cimiteriali».
Secondo lei questa prevalenza del genere femminile ha a che fare con la dimensione della cura?
«Non ne ho idea. Sicuramente non in me: io ho il terrore delle bare e considero il camposanto solo per la sua superficie, quella dimensione visibile che racconta storie. Che siano del territorio, del singolo, della famiglia, di intere genealogie. Mi piace scoprire tombe dimenticate e tenere viva la memoria».
Giulia Depentor ha paura dei fantasmi e del mistero e poco sopporta quei luoghi (che pure ha visitato) che espongono scheletri e mummie, come le Mummie di Urbania e le Catacombe dei Cappuccini a Palermo: «A Urbania le mummie sono chiuse dentro le vetrine e l’impatto per me è stato più sopportabile: mi facevano l’effetto dei diorami al museo di scienze naturali, mentre a Palermo è stato uno shock: le mummie sono in piedi e incombono sul visitatore, avevo paura che mi cadesse qualcosa addosso. Ma quello che si vede lì sotto è una testimonianza incredibile. Tutti i nobili volevano essere sepolti lì e si vede di tutto: dalle spose morte appena prima del matrimonio, vestite con l’abito da cerimonia, ai notabili del tempo».
Il libro propone un viaggio nell’incredibile, intriso della storia sociale d’Italia. C’è il cimitero di Sanfinocchi, il camposanto dell’ex manicomio di Volterra. Per visitarlo ha dovuto rompere le scatole a tutta la pubblica amministrazione volterrana, ma infine ce l’ha fatta e un guardiano le ha aperto il cancello di questo piccolo luogo della memoria, interno all’edificio che ospitava persone di tutti i generi, purché fuori dagli schemi e dall’ordine costituito della società del tempo, i “matti”. «Mi aspettavo un luogo lugubre, invece è tutto verde e quasi non ci si accorge di essere in un cimitero perché le lapidi sono affondate nel terreno. Alcune riportano solo un numero, la matricola del degente: ripetono in morte quello che succedeva nel manicomio (e nelle famiglie d’origine)».
C’è anche la storia del Vajont e del suo cimitero-memoriale: «Il cimitero del Vajont è un cimitero spontaneo: ha iniziato a esistere il giorno dopo il disastro perché lì venivano portati i cadaveri. È un luogo molto toccante. Poi si è deciso di fare un memoriale, ma per i famigliari questo monumento ha tolto l’identità alle persone. È come se l’onda dalla diga fosse passata una seconda volta cancellando la memoria delle vittime». Qual è la differenza tra un cimitero e un memoriale? «A volte non si può fare a meno che istituire un memoriale, purtroppo. Sono luoghi importanti come i cenotafi che celebrano anche i luoghi dove sono avvenuti i fatti. Ma i cimiteri invece conservano le vite degli altri».
Di storie ce ne sono tantissime, quelle raccolte nel volume di Depentor (dalla tomba che ha ispiratola copertina di un disco dei Joy Division alla tomba Brion del grande architetto Scarpa) e quelle ancora da raccontare, a caccia di cronache del passato, aneddoti e leggende che si scoprono magari a partire da una semplice scritta su una lapide. «Le mie indagini nascono sempre così. Quando entro nei cimiteri non ho un obiettivo preciso, mi lascio trasportare dall’istinto e da qualche suggestione, per soffermarmi su alcune lapidi che mi colpiscono particolarmente».
Ha mai pensato alla sua tomba?
«Sì. Mi piacciono le lapidi che riportano scritte umoristiche. Così ho pensato, per ridere, che sulla mia vorrei che venisse scritto: “Questo era un podcast scritto, composto e prodotto da me”».