Potrei scrivere «loro», pensando di rivolgermi ai pochi che non sono loro. Potrei scrivere «voi», pensando di rivolgermi ai tanti rispetto a quei pochi. Non so come fare. Non so come dire che loro non hanno capito. Non so come dire che voi non avete capito. So solo che non si è capito quel che è successo il 7 ottobre. So solo che loro non l’hanno capito. So solo che voi non l’avete capito. So solo che non si è capito, che loro non hanno capito, che voi non avete capito, la disperazione che ha preso gli ebrei; non gli ebrei di Israele, ma tutti, vedendo quelli che non capiscono e vedendo voi che non capite.
Quella disperazione non era e non è per i massacri fatti da alcune migliaia di assassini nella mattina di quel Sabato Nero. Certo, i fatti mostruosi di quel giorno hanno rinfacciato agli ebrei di Israele la loro condizione di insicurezza, l’odio spaventoso e inesausto di cui sono destinatari pur nel piccolo rifugio che avrebbe dovuto proteggerli. Ma non è questo, non è quella violazione domestica, pur trionfante in mostruosità, a togliere il sonno e le ragioni di vita degli ebrei. È la diffusa incomprensione di ciò che quella mostruosità rappresenta. La diffusa incomprensione del fatto che gli ebrei sono costretti nuovamente a guardare l’abisso. La diffusa incomprensione del fatto che l’abisso è tornato a guardarli.
Non si è capito che quell’incomprensione rivanga l’orrore della famiglia in fuga dallo Shtetl incenerito. Non l’hanno capito. Non l’avete capito. Non si è capito che quell’incomprensione riporta l’immagine degli ebrei indifesi, soli, terrorizzati mentre nelle strade, nelle piazze, negli uffici, nelle scuole, negli ordini professionali, nei ministeri, la violenza e la discriminazione li soverchiava e toglieva loro tutto, il lavoro, gli averi, ogni diritto, la vita.
Non l’hanno capito quelli che non hanno capito ciò che il 7 ottobre ha significato per gli ebrei. Non l’avete capito. Non si è capito che quell’incomprensione trascina e ripropone la memoria, le sofferenze, le tristezze, i matrimoni, le feste, la musica, i balli, i dolci, le preghiere, i funerali, gli abiti, i dialetti, le cartoline, le candele, le tovaglie, i libri, i sabati, i cimiteri della diaspora. Non l’hanno capito. Non l’avete capito.
Non si è capito ciò che lega la vicenda di un venditore di stracci galiziano a quella di una ragazza stuprata e assassinata nel deserto del Negev. Non l’hanno capito. Non l’avete capito. Non si è capito ciò che rende una cosa sola un bambino sgozzato in una culla e il vegliardo coi segni del lager sul braccio, il nonno che ricorda i ricordi del padre lituano, ucraino, modenese, di Francoforte o di Tripoli mentre nessuno capisce che è nuovamente solo, com’era solo da bambino, nel campo, com’era solo suo padre, chissà dove, ovunque, tanto prima che un altro bambino ebreo fosse ucciso nel proprio letto perché è come quel nonno, come il padre di quel nonno: perché è ebreo. Senza che questo sia capito. Senza che l’abbiano capito. Senza che l’abbiate capito.