Chiharu Shiota è conosciuta per le sue imponenti opere e installazioni costruite attraverso fili intrecciati con elementi e oggetti simbolici. Sono necessarie anche tre settimane per montarle: è il caso delle sue opere più celebri, tra cui “Inner Universe” del 2010, in cui l’artista avvolse con il filo un lettino per bambini e le scarpe di un bambino. Tra le grandi installazioni che hanno fatto la fortuna mondiale di Shiota non possiamo che citare quelle presentate alla biennale di Venezia: nel 2004 “Dialogue from DNA” fece scalpore indagando attraverso i vestiti il potente impatto delle nostre radici e del nostro patrimonio genetico sulla nostra identità, mentre “The Key in the Hand” lasciò tutti senza parole con oltre cinquantamila chiavi sospese sopra due barche per affrontare con coraggio il tema della memoria collettiva e individuale.
Il magistrale impiego dello spazio negativo, ovvero dello spazio vuoto all’interno delle sue opere, genera un forte senso di mistero e nostalgia. Di fronte a queste opere non si rimane infatti mai semplicemente meravigliati, ma profondamente toccati e coinvolti. Tutta la sua ricerca artistica risulta fortemente evocativa, richiamando sempre il tema della memoria anche di chi non c’è più, ma è ancora con noi. Le sue opere non si vedono, ma si vivono: il risultato è un’emozione, un’esperienza empatica di compassione, intesa come scoperta e condivisione della propria interiorità.
Sei nata e cresciuta in Giappone, ma da decenni vivi soprattutto in Europa: perché e com’è avvenuto questo viaggio artistico e personale?
Ho deciso di continuare i miei studi in Germania negli anni Novanta e mi sono trasferita a Berlino perché era una città molto vibrante. Dopo la caduta del Muro di Berlino, c’era un’energia così speciale e tanti artisti si sono trasferiti lì. Nessuno aveva soldi, ma tutti facevamo mostre in edifici abbandonati e c’era una forma di creatività diffusa. Più incontravo persone di diverse nazionalità, più mi rendevo conto della mia eredità asiatica. Perciò naturalmente la mia nazionalità fa parte anche della mia arte, ma quest’ultima riguarda domande più universali sulla vita, la morte e l’essere umano. La mia arte parte inevitabilmente da un’esperienza personale, ma voglio – o meglio – cerco sempre di creare una sensazione, un’emozione universale.
Dopo aver smesso di dipingere all’età di vent’anni, hai ripreso quando ti sei ammalata. Ci racconti meglio questa trasformazione e cosa significa per te il disegno?
Il disegno è parte di me. Ho smesso di dipingere nel mio secondo anno di scuola d’arte, mi sentivo bloccata nello spazio bidimensionale. Pensavo che tutto ciò che dipingevo fosse già stato fatto e detto in precedenza. Dopo la mia prima diagnosi di cancro nel 2005 ho ricominciato a disegnare su carta, disegnavo tutti i giorni. Per me, disegnare è come il mio diario: posso esprimere emozioni di cui non posso parlare. Ho disegnato forme diverse: rappresentano l’universo ma assomigliano anche a una cellula del corpo. Da questa cellula si connette una linea o un filo a una figura umana. È un’immagine visiva della connessione tra il sé e la natura, tra l’universo interiore e quello esterno.
Intendi perciò l’arte come strumento di interconnessione e dialogo con te stessa e con gli altri?
Ognuno di noi ha un universo dentro di sé e penso che il nostro obiettivo – non solo mio in quanto artista – sia quello di collegare il nostro universo interiore con quello esterno. Io cerco di capirlo e metterlo in pratica attraverso il mio gesto artistico.
Come arrivi al filo, che è forse la tua cifra stilistica più evidente?
In fondo se ci pensi bene con il filo disegno nell’aria. Il filo è arrivato per un bisogno personale esistenziale, non per “creare” un’opera d’arte. Non credo infatti in questa distinzione. Capitò che, arrivata in Germania, non trovavo un posto tutto mio. Avevo cambiato appartamento nove volte e volevo creare uno spazio tutto mio, ne avevo bisogno. Avendo con me solo del filo ho iniziato nella mia camera a tesserlo e intrecciarlo intorno al mio letto. Questa è stata la mia ispirazione per “Durante il sonno”.
Ci spieghi, il significato del colore dei tuoi fili – rosso, bianco o nero – che non sembra mai né casuale né decorativo?
Il filo nero è disegno: è come una linea a matita sulla tela. È un’estensione nello spazio. Il filo rosso rappresenta la connessione e le relazioni, perché credo che siamo tutti intimamente collegati e interconnessi. Mentre il bianco non ha né inizio né fine: è come la vita e la morte. Il bianco è forse il colore in cui si vede di più l’influenza culturale del Giappone che associa questo colore alla morte. Il bianco è uno spazio vuoto, è senza tempo.
La tua arte è molto simbolica: le barche, le sedie o gli abiti che ricorrono nelle tue opere hanno un significato speciale?
In Giappone mi è stata insegnata la filosofia buddhista, che mi porta ad avere un rapporto diverso sia con la natura, sia con la trascendenza. Nel buddhismo non c’è un unico Dio e la vita è molto più legata alla natura: non c’è una fine, le persone sono rinascere. Il tema principale della mia arte è “l’esistenza nell’assenza”. Si tratta della memoria che resta negli oggetti, che perciò ricoprono – credo non solo per me – un ruolo fondamentale nella mia esistenza. Quando lasci il letto al mattino, le lenzuola hanno una certa presenza. Ma questa sensazione è ancora più forte negli oggetti delle persone che non ci sono più: puoi sentire la loro presenza anche se non è fisicamente li.
La tua arte sembra avere un elemento di auto-terapia e processo catartico, ti è mai capitato di stancarti della tua arte o di trovarla troppo faticosa?
Sono un’artista ventiquattro ore su ventiquattro, sette giorni su sette. Non posso essere altro. Tutto nella mia vita è stato parte della mia arte. Così la maternità, uno degli eventi più importanti della mia vita, ha colmato un vuoto in me stessa. Ma penso che molte persone possano collegarsi allo stesso sentimento. Aspiro sempre a creare queste connessioni universali, più che legate a me o al singolo essere umano.
Credo sia quindi difficile per te raccontarci un’opera che ha fatto la differenza.
Questa è una domanda per me difficile, quasi impossibile: sono la mia arte. Più che un’opera mi sento di dire che sono legata alla grande mostra personale The Soul Trembles, che è stata presentata al Mori Art Museum nel 2019 e che da allora è in tour in Asia. Mentre stavo preparando questa mostra nel 2019 ho dovuto affrontare un intervento chirurgico e chemioterapia. Durante questo periodo ho riflettuto molto sulla vita e sulla morte e su cosa succederebbe alla mia anima se il mio corpo dovesse morire; quindi, ho messo questa sensazione nel titolo: “L’Anima Trema”. È stata un’occasione di sintesi anche personale e credo che tutto ciò sia arrivato allo spettatore, che camminando da una stanza all’altra, viveva tutte le emozioni di una vita insieme, contemporaneamente, in un unico luogo.