Mondo in divenire Arte, moda e design dal punto di vista di H.H. Lim

«È tutta una questione di punti di vista, e se ti siedi sulla mia sedia è come se provassi le mie scarpe: vedresti un po’ il mondo come lo vedo io, quando sono stanco». L’artista di origini cinesi ci racconta la sua “filosofia della sedia” e spiega le famose sitting sculptures, che realizza da quasi vent’anni

H.H Lim, Red Room, performance, 2004, Villa Arson, Nice. Courtesy dell'artista

H.H. Lim è tra gli artisti cinesi viventi più influenti, con all’attivo un centinaio di mostre personali, tra cui quattro Biennali di Venezia (di architettura nel 2010 e d’arte nel 2013, 2015, 2019). Negli ultimi vent’anni ha accompagnato un gesto performativo – alle volte estremo – alle sitting sculptures, per cui ha trasformato delle sedute in opere d’arte. Dalla Tang Contemporary Art Gallery di Pechino, alla GNAM, dal MAXXI di Roma al Museo Francesco Messina di Milano, fino all’ultima mostra NO, NO? NO. NO! al Gaggenau Design Elementi di Milano, le sue opere sono sempre presenti e risultano essere molto più che una velleità decorativa, diventano quasi un corpo autonomo, un vero e proprio apparato filosofico.

Appena arrivato in Italia alla fine degli anni Settanta hai cominciato a fare performance, mettendo alla prova il tuo corpo, in modo quasi estremo. Già in queste prime performance avevi sempre con te degli oggetti, soprattutto sedie e valige. Perché?
Da sempre, gli oggetti hanno per me una dimensione concettuale legata alla mia performance, che è da sempre incentrata sul tema del divenire e del viaggio: due temi intimamente interconnessi. Viaggiare è parte della mia esistenza, perché l’essere umano fermo non può stare, è nomade. Chi viaggia e ama viaggiare non crede nelle nazioni, conosce solo il bello e non può che volere la pace.

Quale legame c’è tra la valigia e la sedia? Sembrano oggetti così diversi, in qualche misura antitetici.
La sedia e la valigia sono due aspetti complementari del viaggio, che non è sinonimo di movimento fine a se stesso, ma dell’andare con la volontà e il desiderio di scoprire cose nuove: non sai cosa scoprirai, ma ti organizzi per farlo. La valigia serve per portare le cose con te, il tuo mondo in divenire, mentre la sedia serve per riposarsi e pensare; un aspetto non può esistere senza l’altro. Del resto, in questo momento entrambi siamo seduti, anche se in due luoghi opposti del globo, dopo aver viaggiato tanto.

Sitting sculptures, GNAM, Roma, 2011. Courtesy dell’artista

Guardando le tue opere si direbbe che negli ultimi anni abbia amato più la sedia, e quindi la riflessione. Nonostante la valigia sia protagonista di famosissime performance come quella alla GNAM di Roma del 2001, gli ultimi dieci anni sono caratterizzati da un brulicare di sedie: da quelle in bronzo, a quelle in legno bruciate, ma anche disegnate. Cosa c’è sotto?
Ho rivalutato questo oggetto, la sua importanza rispetto alla valigia, che può anche essere una zavorra. La sedia invece è come un’ombra: è qualcosa di molto intimo, sempre al tuo fianco, che cambia in ogni luogo, ma che c’è sempre. La valigia è uno strumento per avere radici, la sedia per conoscere luoghi nuovi. Quante cose potrebbero raccontare le sedie? Quante persone hanno conosciuto e su quante sedie ci siamo seduti in un’intera esistenza?

Sembra essere una forma di “filosofia della sedia” dai mille rivoli simbolici e iconografici.
Oltre la sedia c’è tutto il resto. Più che filosofia della sedia, la mia è una visione, un nuovo punto di vista sull’oggetto e sul design. Da troppo tempo vedo un forte fraintendimento su tali concetti con una deriva in cui si confonde popolare con populista. Tutto nasce da un’idea, da un’ispirazione estetica sociale, più che utilitaristica. Alla massa arriva l’idea grazie alla riproducibilità tecnica, un’idea geniale duplicata da un prototipo, che è opera d’arte a tutti gli effetti: l’arte del vestire per l’alta moda e l’arte del vivere per il design. Questa è arte, né più né meno dell’arte figurativa.

SEDIA di fronte a Endless Journey, in mostra NO NO NO NO. ©Francesca Piovesan, Courtesy dell’artista

Nel dire questo evochi e citi Gropius e Le Corbusier?
Su Gropius e la Bauhaus senz’altro credo ci sia stato un grande fraintendimento: non si è mai parlato di livellarsi alla massa, ma rendere accessibile il bello a tutti. Però, se vedo un pensatore o un intellettuale del design a me affine, penso di più al magistrale e non del tutto riconosciuto lavoro di Enzo Mari. Emblematica per me è la storia e il significato di Sedia n1, un’opera d’arte concettuale. Anche se la sua riproduzione fosse infinita per me sarebbe come avere una copia, un poster di Van Gogh: l’originale esiste ed è un capolavoro, le copie sono copie e hanno il valore della copia. In fondo, i multipli di artista non sono molto diversi dal design: hanno una funzione decorativa, che parte da una matrice che è opera d’arte in quanto portatrice di un pensiero nuovo. Poi ovviamente ci sono sedie belle e sedie brutte, come anche quadri belli e opere che nascono già vecchie.

H.H Lim, La via del falò divino happening, 2017. Courtesy dell’artista

Negli anni sei passato da una visione quasi ready-made dell’oggetto compartecipante delle tue performance, alle sitting sculptures e agli oggetti scultura. Solitamente, nel farlo, apporti un tuo intervento artistico ad oggetti già esistenti. Come hai cominciato e perché?
Il perché è stato quasi fisiologico. Le sedie e le valigie sono oggetti della mia vita in viaggio. Quando l’oggetto entra a far parte della mia performance, diventata scultura. Dato che nelle performance misuro sempre l’equilibrio mente-corpo, ho voluto creare oggetti di scultura che fossero funzionali a me, al mio viaggio che è fatto di arte, scultura e materia. Il vero design, per me, ha la grande possibilità e capacità di permettere al corpo di concentrarsi e allinearsi alla mente. Questa riconciliazione funzionale è fondamentale ed è quello che da sempre cerco di raggiungere con la mia arte. La massima espressione delle sitting sculptures è stata la mostra del 2005 al Museo Manzù. Ho posizionato le mie sedie-sculture con la scritta “punto di vista” dove secondo me si vedono e apprezzano meglio le opere del Maestro: negli angoli. Le mie opere diventarono così strumento di una performance continua per cui invitavo gli spettatori a vedere lo spazio – ricco dei bronzi di Manzù – da una nuova prospettiva.

H.H Lim, Please Come Back. Il mondo come prigione, MAXXI, 2017. Courtesy dell’artista

Poi non ti sei più fermato. Anche se non hai mai realizzato oggetti di design in serie, hai prodotto oggetti-scultura, non solo sedie, soprattutto in alluminio, ma anche in bronzo e legno.
Erano troppo belli e funzionali a una parte ludica e ironica della mia ricerca artistica. Il mio viaggiare è una continua ricerca di nuova ispirazione, il superare l’incubo della tela bianca e raggiungere la felicità del processo creativo. Gli oggetti che accompagnano il mio viaggio mi danno ristoro e mi aiutano a trovare questa ispirazione. Non a caso ho voluto realizzare una scultura – GOLD 9999 K – di una bottiglia di vino in bronzo, poi placcato in oro. Per questo non ho mai accettato né sfiorato l’idea di trasformare le mie opere in oggetti per la massa, attraverso la produzione in serie. Io parto dal mio privatissimo e relativissimo punto di vista, non ho una visione democratica del gesto artistico: non penso allo spettatore quando creo. Io creo per raccontare agli altri ciò vedo e intuisco. Fare design implica una responsabilità enorme, che non sento mia, né propria del mio modo lieve di intendere l’esistenza. Fare un’opera di design che arriva nelle case di tutti, tradurre il proprio pensiero unico, favoloso, in qualcosa di fruibile da tutti, che impatta sulla vita di tante persone… che responsabilità ha il design se fatto bene? Enorme.

Eppure il tuo gesto artistico è sempre potente, non sembri così timoroso dell’impatto che puoi avere sugli altri: hai persino inchiodato la tua lingua a un tavolo e su molti di questi oggetti-scultura in metallo ci sono le tue famose lettere e parole. Che rapporto si crea perciò tra oggetto e parola?
«Ceci n’est pas une pipe». Io intervengo sempre su oggetti che non invento io, ma che esistono già. Non ho la responsabilità del designer. Anzi, il mio gesto libera l’oggetto dalla sua funzionalità, ne fa emergere la materia e il senso più profondo, non solo attribuito da me. Il mio gesto crea una sorta di cortocircuito che non può esserci nel design. Perciò, per me, non è tanto diverso dallo scrivere su una tela o su un oggetto. Al massimo è una questione di stratificazione di livelli di senso e significato. Negli oggetti ce ne sono di più e mi piace molto.

H.H Lim, Dettaglio Sedia in mostra NO NO NO NO. ©Francesca Piovesan, Courtesy artista, Gaggenau Cramum

Sembra che ti piaccia l’ambiguità tra arte e design, quasi a non vederne in fondo le differenze. La funzionalità nella vita di tutti i giorni non sembra essere la discriminante.
Siamo onesti, quanti oggetti di design sono puramente belli e quanta arte è “bieca decorazione”, intesa mazzucchellianamente? La parola ambiguità non mi piace molto: io metto in contatto mondi – quello dell’arte e quello del design – che negli ultimi anni sono stati separati, ma che anticamente non lo erano. Ripeto: il design è l’arte del vivere, come la moda l’arte del vestire. Un abito della Regina Elisabetta I valeva quanto una nave e molto più di un dipinto nel Seicento! Io combino oggetti al mio modo di fare arte, ovvero a partire dal segno e dalle parole: cerco così di arrivare a un’altra dimensione, quella dell’ispirazione, che è la meta del mio viaggio. Quelle intuizioni al di là di tutti, che ti fanno avere anche per brevi istanti una visione lucida, dall’alto, altra della realtà. Quindi più che ambiguità a me piace dire che la mia attitudine è la curiosità, quello spirito dell’animo che ti permette di vedere un oggetto al di là della sua utilità, per il senso più profondo e per le sue forme. Ogni cosa è un’opera d’arte sintesi di tutto, a me piace (ri)scoprirlo.