Giorgia Meloni cammina sul filo di un rasoio. Le parole chiave con cui Giorgia Meloni si presenta al Consiglio europeo di giovedì e venerdì sono «massima flessibilità». Flessibilità nell’uso delle risorse che verranno previste nel bilancio pluriennale dell’Unione. Flessibilità dei vincoli di bilancio da introdurre nel nuovo Patto di Stabilità. L’intento del governo è avere maggiori spazi di spesa nelle manovre finanziarie dei prossimi anni. Gli investimenti in spese militari e nella transizione green andrebbero scorporati dal calcolo del debito da cui rientrare ogni anno, così come il reperimento delle risorse per aiutare l’Ucraina. Un modo, secondo la premier, per non pesare sull’opinione pubblica «già provata dal conflitto».
Nelle comunicazioni alla Camera di ieri la presidente del Consiglio si è mostrata troppo ottimista. Forse avrà le sue ragioni, conoscerà che cosa stanno ottenendo i suoi sherpa al tavolo delle trattative. Ha elogiato pubblicamente il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti per il suo impegno in Europa, per avere messo la firma su una manovra seria e rigorosa. Smontando il luogo comune che inserisce l’Italia tra i Paesi spendaccioni, sempre bacchettata dai frugali virtuosi.
È questo il biglietto da visita con cui si presenta la destra a Bruxelles, ma la Meloni prima sorvola sul Meccanismo europeo di stabilità. Poi, replicando all’opposizione, ricorda che la ratifica del Mes deve tenere conto del quadro di insieme, su quello che Roma riuscirà a ottenere sulla riforma del Patto di Stabilità. È questo, ha sottolineato, il mandato ricevuto dal Parlamento.
Non dice e non può dire che lo stesso Giorgetti ha più volte garantito ai suoi colleghi comunitari che questo benedetto Mes verrà firmato, nonostante le resistenze del suo capo partito Matteo Salvini. Nonostante la stessa Meloni sia stata una delle principali oppositrici, fino a manifestare davanti al palazzo del Consiglio europeo a Bruxelles nel 2019.
Ora in quel palazzo ci entra da presidente del Consiglio che deve portare a casa almeno una parte di quella «massima flessibilità» per evitare di essere strozzata. Ma deve pure contrastare il suo (ex) amico Viktor Orbán che si oppone all’ingresso dell’Ucraina nell’Unione europea, mette il veto al fondo di cinquanta miliardi nel bilancio comunitario per sostenere Kyjiv. Dovrebbe contrastarlo, ma non lo farà. Non dirà al magiaro che bisognerebbe votare a maggioranza ed eliminare il diritto di veto, perché quel diritto potrebbe tornare “utile” anche al governo di Roma. Anzi ieri, nella sua replica, Meloni ha detto di essere capace di parlare con tutti, anche con l’Ungheria.
Poi si è esaltata dicendo di essere capace di ottenere risultati. A differenza dei suoi predecessori, compreso l’ultimo. «Ricordo la foto di Draghi sul treno con Macron e Scholz. Per alcuni la politica estera è farsi fare qualche fotografia, anche quando a casa non si portava niente. Io penso che l’Europa sia a ventisette Paesi e bisogna parlare con tutti. Io riesco a parlare con la Germania, con la Francia e anche con l’Ungheria, perché penso che questo sia fare il proprio mestiere». Avrà modo al Consiglio di provare a convincere Orbán. Vedremo che cosa sarà capace di fare. Oppure si accorgerà che il rasoio europeo è affilato, non una corda per funamboli. Non basta dire che l’Italia è un Paese «virtuoso e affidabile».