È il riflesso tossico dei sovranisti, sia di quelli che vestono gli abiti europei all’occorrenza e per necessità/opportunità geopolitica sia di quelli trinariciuti tipo Viktor Orbán. Quest’ultimo, accucciato presso la corte di Zar Vladimir Putin, siede nel Consiglio europeo, limita i diritti civili, controlla la magistratura, non accoglie i migranti sbarcati nelle nostre coste, prende un bel po’ di soldi comunitari da Bruxelles. Quando poi si tratta di darli all’Ucraina e di accoglierla nella Unione europea si mette di traverso. Mette veti, minaccia, fa vibrare le tre narici nazionalistiche. Giovedì al Consiglio europeo vedremo di cosa è capace il magiaro. È a un bivio.
Ora, sia chiaro, ogni Paese fa i suoi interessi perché i governi democratici devono, prima o poi, rispondere alle loro opinioni pubbliche. C’è un momento, tuttavia, in cui gli spigoli dell’interesse nazionale devono essere smussati, la convivenza, se non altro in un mercato unico, deve farsi concava e convessa con quelli degli altri. Sempre che si vuole tenere in piedi una Comunità che non sia la mera e scadente sommatoria di sovranismi. Come a volte, purtroppo, si presenta ai cittadini.
A Orbán non interessa la convivenza con Bruxelles che ha definito, in uno dei suoi momenti illiberali di delirio, la «brutta copia di Mosca», quella sovietica però perché oggi è invece un modello per lui (pieno di gas a buon prezzo). A Giorgia Meloni Bruxelles a volte interessa, a volte sembra proprio di no. Nel caso specifico della ratifica del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), no. Poi però dell’Europa ha bisogno, e anche tanto visto che senza i soldi del Piano nazionale di ripresa e resilienza non sapremo come rendere moderne le infrastrutture italiane (vedremo se la politica e la Pubblica amministrazione riusciranno a spenderli).
La casistica del bisogno è ricca, in tutti i sensi. Se può pensare di fare qualcosa sull’immigrazione, a Bruxelles, Parigi e Berlino deve guardare. Adesso, tanto per dire una cosa concreta, sta trattando la revisione del Bilancio europeo con l’obiettivo di ottenere tra i due e otto miliardi di euro per dare gambe organizzative alle strutture esterne delle politiche migratorie dell’Ue. Il punto dolente è che questa trattativa avviene all’interno di un «pacchetto» complessivo che comprende anche la riforma del Patto di Stabilità e, appunto, il Mes, il cosiddetto Fondo salva-Stati che dovrebbe entrare in vigore da gennaio e di cui si parlerà giovedì prossimo al Consiglio europeo.
L’unica firma che manca all’appello è quella dell’Italia. Tutti sanno che è un bluff. Lo sa la presidente della Banca centrale europea Christine Lagarde. Lo sa anche il Cancelliere tedesco Olaf Scholz. A quanto pare lo avrebbe detto loro la stessa presidente del Consiglio italiana, ma lei insiste nella trattativa. Anche l’europeista Antonio Tajani fa capire che si tratta di un balletto quando ricorda in un’intervista al Messaggero che un mese in più o in meno non si cambiano le cose. Per il ministro degli Esteri, il Mes non è una questione di calendario ma di politica macroeconomica: è necessario completare quella che Tajani chiama «l’architettura composta dal Patto di Stabilità, dall’unione bancaria e dall’armonizzazione fiscale. Altrimenti saremmo davanti a una scelta monca che servirebbe probabilmente solo alle banche tedesche».
Ancora più chiaro è stato Raffaele Fitto. Il ministro per Rapporti con l’Europa fa capire che la soluzione di tutti problemi con l’Italia, firma del Mes compreso, è quella di stabilire concretamente lo spazio fiscale che il governo disporrà nei prossimi anni. Non contabilizzare le spese per la Difesa sarebbe già una manna dal cielo per le varie manovre finanziarie di Roma che si avvia al confronto elettorale europeo di giugno 2024 e delle politiche 2027 nella lunga prospettiva di legislatura.
Matteo Salvini non metterebbe mai la sua firma in calce al Mes. Meloni all’opposizione ne aveva fatto una bandiera contro gli eurobanchieri ma ora sa che dovrà passare da quella forca caudina. Rinvia a gennaio perché non sa come giustificare anche questa metamorfosi. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti annaspa quando i suoi colleghi all’estero gli chiedono conto, a ogni incontro, delle intenzioni del suo governo. Le divisioni nella maggioranza sono evidenti e l’unico modo per tergiversare è mettere i vari dossier in un unico calderone e fare melina.
I giochi delle nuove regole di bilancio continueranno al vertice Ue di venerdì. Le minacce e i ricatti in stile Orbán vanno messi sul tavolo subito e con forza, ma sono pistole scariche. Sono pistole caricate da altri Paesi, come la Francia che ha interesse a un nuovo Patto di Stabilità consono al suo debito. Piuttosto, Meloni dovrà scostarsi dall’ingombrante e imbarazzante amico Viktor, e dire ancora una volta con decisione sì a Volodymyr Zelensky. Se vuole ottenere quello che è giusto nell’interesse del suo Paese, deve evitare di giocare su più tavoli.