È un surfista, un filosofo, un trascinatore. Uno storyteller, un affabulatore. Non serve dire che sia un grande cuoco: Gianfranco Pascucci non ha bisogno di presentazioni. Ma è la sua capacità di unire e condividere che colpisce e ammalia, e che dimostra sul campo la sua grandezza. Pascucci è in grado di riunire attorno a sé produttori, artigiani, contadini e pescatori, colleghi e giornalisti. E lo fa con una capacità innata di raccontare il suo luogo, dove ha scelto di resistere e dove coltiva relazioni e crea tessuto sociale.
Visitare con lui Fiumicino è come essere trasportati in un mondo parallelo nel quale artigiani, pescatori, contadini sono un tutt’uno con il luogo e diventano parte della sua narrazione.
Pascucci qui non è solo uno chef con un ristorante di grande tono, elegante e raffinato, dove esprime la sua creatività in una sala condotta con grazia determinata dalla moglie Vanessa. Gianfranco è quel fil rouge che racconta e conquista, che spiega e mantiene legami che parlano di mare e terra, di storia e comunità.
E la comunità del cibo di Fiumicino è vasta e sorprendente.
Si comincia dall’orto, un luogo dove due uomini della terra, Roberto e Roberto, uno dall’animo contadino e uno con il culto della scienza, permettono alla natura di esprimersi nel modo più spontaneo possibile. Studi ed esperienza si abbinano, per una forma di agricoltura che non ha definizione ma è autentica e sinergica. Qui crescono ortaggi ed erbe che Pascucci trasforma al ristorante, e crescono in un modo spontaneamente controllato, con i due Roberto a fare da controllori. Qui di fianco ci sono i resti romani delle tombe dei commercianti, il mare è a un passo, i mosaici e le costruzioni anche: eppure la città convulsa sempre lontanissima, e se non fosse per qualche aereo non sapremmo di essere così vicini alla Capitale.
Ed è proprio il mare ad essere al centro del pensiero gastronomico dello chef: si respira nei suoi piatti, si percepisce nel suo passo affrettato quando ci accompagna verso il molo con il suo peatcoat blu scurissimo che lo fa sembrare un marinaio dandy. Arriviamo giusto in tempo per vedere i pescherecci tornare verso casa, con il loro carico di pesce. Gli occhi di Gianfranco vagano curiosi tra le casse, sfiorano branchie, chiedono freschezza. Sente il bisogno di raccontarci tipologie, di mostrarci consistenze, di farci percepire qualità. Ma anche di mettere in luce le difficoltà di un lavoro faticoso, che dipende dal tempo e dalle bizze del mare, e che ultimamente sta lottando contro il fermo pesca, che per questi uomini del mare è stato pensato in periodi sbagliati rispetto alla riproduzione. Anche qui si soffre un allontanamento dei giovani, che faticano a convincersi di partire la mattina e tornare quando decide il mare, di avere un carico variabile, e di lavorare quando decide qualcun altro. Eppure le famiglie storiche resistono e percorrono il tratto di costa antistante questo angolo di mondo per raccogliere il mare che si mangia con amore infinito verso questo lavoro che per loro è vita, è dimensione territoriale, è sistema.
E appena attraccano, si affidano alle mani di Maradona, l’asso dell’asta, il bomber del rilancio, l’uomo che qui media tra chi vende e compra in una delle rappresentazioni più caratteristiche del mondo del pesce.
Andiamo a trovare anche lui, in un capannone a poche centinaia di metri dal porto. Nel frattempo un tramonto arancione ha avvolto la banchina facendola diventare il set perfetto di un film romantico, e il buio sta iniziando ad avvolgerci. Ci stringiamo nei cappotti e sbuchiamo dal buio in questo cubo di cemento e neon, dove il fascino antico del mercato si fonde con i moderni sistemi di peso, in un groviglio di webcam, casse di polistirolo, uomini dotati di telecomando e tabellone che indica i prezzi. Da un lato, fuori da una finestrella che accoglie il pesce e lo mette sul nastro trasportatore che assomiglia a quello delle valigie in aeroporto, i pescatori, che non possono vedere che cosa succede lì dentro. Due mondi vicini, divisi da un muro, che sono così simili e così lontani. Di là chi procaccia il cibo, di qua quelli che lo acquistano. Il pesce si vende a cassette, alcune con una sola tipologia, altre miste. Il prezzo di base viene definito da Maradona, e poi si va di rilanci usando un piccolo telecomando. Il prezzo sale sul tabellone e quando i rilanci si fermano c’è l’assegnazione. Poche parole, ogni tanto qualche applauso per una partita di pesce particolarmente appetitosa, e qualche urlo quando qualcuno “ruba” all’ultimo un lotto prezioso. Poi le cassette vanno verso la loro destinazione, etichettate e tracciate, perché qui non scappa niente.
Mentre ci mostra il suo lavoro, Maradona ci conquista con la sua modalità diretta, franca, romantica: «È un bel lavoro, il titolare mi ha accolto come fossi suo figlio e adesso che non c’è più ho preso il suo posto: non dimentico mai i suoi insegnamenti. Sono arrivato qui cercando il mio cane che si era perso, si chiamava Maradona. Da allora non me ne sono mai andato, e da allora mi chiamano tutti Maradona. Non cambierei la mia vita, questo lavoro è bello e si sta bene». Lo dice con sincerità, si sente nel suo habitat, e tutto qui ha un grande senso. Soprattutto il pesce, che praticamente è ancora vivo: il gambero che ci ha sbucciato e ci ha offerto è stato probabilmente uno dei più buoni mai assaggiati. Lo chef stava sulle sue, ma dagli sguardi si percepiva un certo fremito, un bisogno, che ha soddisfatto conquistando un lotto: «Hai visto che bello?» La sua soddisfazione era pari a quella di un’appassionata di borse che ha appena conquistato la sua Birkin all’asta.
Ce lo servirà al ristorante un’ora dopo, e gusteremo guancia e collo, perché da Pascucci l’imperativo è fare altissima ricerca senza sprechi. Lo scopriremo piatto dopo piatto, nei fondi e nelle verdure, nella scelta dei tagli e nell’attenzione ai condimenti. È un percorso intenso, dai gusti decisi. È un viaggio marino che anche nei vini trova compimento: accanto alla carta che accoglie tanta qualità e tanta Francia, c’è una selezione di vini provenienti da vigne accanto al mare. Un’idea coerente, che sposa il senso più alto di questo ristorante, che si affaccia sul mare pur non essendolo fisicamente. Tutto ci riporta lì, a quegli occhi vivaci che scandagliavano il carico appena rientrato in porto, e a quella energia impetuosa nel momento dell’asta, quando il cuoco che è in lui non ha potuto fare a meno di conquistare la sua preda ambita. È tutto funzionale a questi piatti, che ci spiegano più di qualunque dialogo che cosa c’è nel cuore dello chef: il rispetto del lavoro della sua filiera, il dialogo costante con chi è il suo tramite verso il sapore massimo possibile, che lui plasma, senza tradirlo e senza prevaricarlo, ma con una tecnica e una precisione che non possono che stupire ad ogni boccone. Un menu che è una scoperta, e trasforma in sapore tutte le immagini con cui ci siamo riempiti gli occhi in queste ore passate insieme.
Pascucci al porticciolo
Via Fiumara, 2
Fiumicino RM
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