La moda è la celebrazione dell’effimero: potremmo dire così. L’effimero che esula dalla mera funzionalità degli oggetti. Dunque, non riguarda assolutamente solo gli abiti. La moda segue un principio che fin dall’epoca degli antichi greci ha caratterizzato non soltanto i rapporti e i codici tra gli uomini, ma anche l’idea del sublime in natura, l’immagine artefatta e struggente della perfezione, dell’assoluto: la ricerca del bello.
La ricerca del bello coincide con la celebrazione dell’effimero. Eppure, a ben pensarci, favorisce la coesione sociale, i legami, i sodalizi, gli innamoramenti, le passioni. Allevia il senso di desolazione esistenziale che altrimenti ci afferrerebbe alla gola, che afferra alla gola chiunque di noi sosta troppo a lungo con il pensiero della morte. Consiste in una specie di divertimento, letteralmente, un modo di «divergere», di «guardare altrove» rispetto alla fatalità del destino, un passatempo «effimero», di nuovo, che stempera la certezza della fine.
Dobbiamo ammettere che la moda è dunque una questione di sopravvivenza. Lascia che noialtri sopravviviamo, facendo esperienza del bello. In tutte le forme che essa assume, beninteso: un prodotto cinematografico, un’opera d’arte, la pagina di un libro, il nodo di una cravatta, la tessitura di una sciarpa, la disposizione architettonica di certi palazzi, l’interno di un caffè, le cime dei monti da un’altura, un paesaggio marino.
Circuirla, circondarsene, studiarla, averci a fare è uno dei tentativi di questo millennio, soprattutto perché sempre di più e in forma sempre più massiccia avanza il brutto, dilaga ovunque, inquinando, intorpidendo l’acqua, colando il cemento sulle montagne, costruendo anche a duemila metri d’altezza e considerando l’effimero non più in quanto tale, nella sua consolante, rarefatta vastità, ma nella sua funzionalità. Funzionale a incrementare vendite e introiti, funzionale al consumo, funzionale alla comodità, la quale, per inciso, è contraria al bello.
Comodo è antitetico al bello, opposto alle sue leggi. Il bello è scomodo, complesso, difficile da restituire. Impossibile da spiegare. Lo sapeva bene Aldo Fallai, di cui si inaugura la mostra presso Armani/Silos, a Milano, il 4 dicembre. Nato nel 1943 a Firenze, incontra Giorgio Armani negli anni Settanta e in questo modo inizia un rapporto che influenza la moda e le sue rappresentazioni, protrattosi per circa un quarto di secolo, fino al 2021 per la precisione.
Il fotografo fiorentino imposta il suo linguaggio visivo sulla storia dell’arte, sui dipinti preraffaelliti, l’esotismo orientale, Caravaggio persino. In maniera analoga costruisce la narrazione fotografica: migliaia di immagini, raccolte nel corso degli anni, in bianco e nero, che raffigurano la tipica donna del marchio, la donna cara a Giorgio Armani, androgina, dignitosa, quasi fredda, se non fosse che Armani ha contribuito a lanciare la femmina di allora per le strade, nei luoghi di lavoro, a renderla professionale e di classe. Finalmente lontana dal focolare domestico, dalle tenere organze, dai corpetti rigidi, dai busti attillati.
L’esposizione monografica, curata, oltre che da Giorgio Armani, anche da Rosanna Armani e Leo Dell’Orco, permette di sbirciare tra i servizi, le campagne e le copertine di Elle, GQ, L’Uomo Vogue, dove modelle della statura di Angela Wilde, Antonia Dell’Atte e Gia Marie Carangi venivano trattate alla stregua di attrici del cinema, di protagoniste di una nouvelle vague fotografica.
Poiché si spera verrà preparato anche un libro che raccolga le stampe della mostra, esce nel frattempo “Ciak si Sfila. I défilé di moda in trenta film” di Grazia d’Annunzio, direttrice di Glamour oltre che storica giornalista di moda, e Sara Martin, docente di Storia del cinema e Teorie e tecniche della televisione. Sara Martin si occupa anche della cinematografia in rapporto ad altre forme di espressione artistica, soprattutto per quanto riguarda il costume e la scenografia.
Già, la moda e il cinema si parlano, si toccano, comunicano, sono intrinsecamente legati, non solo perché entrambi pertengono al dominio, al regno dell’immagine, ma anche perché, in un certo senso, sono un prodotto sempre cangiante, mutevole e vivo della storia. Pensiamo a Isabella Rossellini sul set di Viaggio in Italia, alla sua compassata messa in piega, alla scriminatura dei capelli di Cary Grant, agli abiti sirena che Rita Hayworth indossa in Gilda. A Irène Jacob ne La doppia vita di Veronica e a Isabella Adjani in Possession di Zulawski. E poi paragoniamoli alla protagonista di Frances ha di Greta Gerwig, a Dakota Fanning in 20th century women. Il cinema fotografa la società, certo. Ma costruisce soprattutto dei modelli femminili, ben più che modelli maschili, e questo per la ragione che le donne sono, in generale, più attente ai contenuti che proliferano sul loro conto, essendo state escluse dalla narrazione dell’arte e della storia per quasi duemila anni.
Il libro, però, non si limita a sottolineare questa evidenza, che tuttavia è sempre affascinante sondare. Il libro esamina, in realtà, una specie di sottogenere cinematografico, i film, cioè, che hanno inserito una sfilata al loro interno. Si tratta di film dedicati alla moda, dunque, ma non solo. Ricordiamo tutti Il diavolo veste Prada, per intenderci, ma scorrendo la lista che il libro propone ci viene in mente che in effetti una sfilata è presente anche in Otto ½ di Federico Fellini o ne Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson. Le sfilate possono essere farsesche, umoristiche, il calco di qualcos’altro come anche in Roma di Fellini, quando una serie di arcivescovi e cardinali attraversano la passerella dell’antica dimora di una nobildonna caduta in disgrazia e una voce fuori campo elenca le fattezze pregiate e la tipologia delle loro tonache e stole.
Oppure essere funzionali alla trama, come nel caso di Triangle of sadness che immortala spietatamente il mondo dei miliardari contemporanei, dei volgari, cinici arricchiti che popolano le crociere di lusso. A quanto pare, esistono autentici art director e coutourier per questo tipo di riprese, elencati nella prima parte del libro, insieme al racconto della genesi di quello che può essere definito «un espediente cinematografico», un momento di intrusione degli stilisti all’interno delle pellicole, talvolta anche per mostrare anteprime delle collezioni.
Come dimenticare le milleduecento fotografie del libro di Givenchy, dal 1952 a oggi, da quando dunque è stata fondata da Hubert de Givenchy, all’epoca solo ventiquattrenne, ai nostri giorni, sotto la direzione di Matthew Williams? Centottanta collezioni in più di settant’anni di storia, esposte in ordine cronologico, fase dopo fase, fasto dopo fasto, da quella istrionica, scenica di John Galliano al caotico intreccio tra l’austera, rigida casa di moda e le sue atmosfere bon ton e le origini suburbane del londinese Alexander Mcqueen.
Brevi testi, biografie, approfondimenti fioriscono come ulteriori decorazioni a un potente corollario costituito dal potere visivo dell’immagine. Gli autori, Alexandre Samson e Anders Christian Madsen sono rispettivamente storici e critici di moda, il primo è curatore al Palais Galliera, oltre che di mostre quali “1997 Fashion Big Bang” e “Margiela Galliera 1989-2009”. Il secondo conduce l’attività di giornalista per British Vogue e prima ancora scriveva sul Financial Times, Daily Telegraph, i-D, Nylon e The Wall Street Journal.
Frida Giannini ha appena presentato “A Journey into the Style and Music of my Icons since 1969”, edito da Rizzoli. Direttrice creativa di Gucci dal 2006 al 2014, il volume è un vero e proprio viaggio – come i precedenti due del resto – attraverso la moda e un’altra forma espressiva, un altro contenuto linguistico, non il cinema stavolta, bensì la musica. David Bowie e haute couture.