Partiamo dalle basi: la famosa malolattica altro non è che una sorta di disacidificazione naturale. Ma se partiamo veramente dalle basi, prima sarebbe meglio sapere quali acidi sono presenti nel vino e che ruolo svolgono a livello organolettico. Quindi, nel vino sono presenti principalmente i seguenti tipi di acido: acido tartarico, acido malico, un po’ di acido citrico (presente naturalmente) e in piccole quantità una serie di altri acidi organici presenti nell’uva o che si formano durante la fermentazione alcolica.
L’acidità nei vini viene espressa in Italia – ebbene si ci sono diversi modi per esprimerla – in grammi di acido tartarico per litro di vino. La somma degli acidi presenti nel vino viene detta “acidità totale” e comprende tutti gli acidi presenti. La quantità di acidi presenti negli acini, nel mosto e di conseguenza nel vino, diminuisce man mano che ci si avvicina al momento della raccolta dell’uva e quindi alla sua maturità, tecnologica o fisiologica che sia.
Per darvi un’idea “spannometrica”, l’acidità è presente nei vini in concentrazioni variabili in un range che va dai quattro grammi/litro o poco più per vini poco acidi, più “piatti”, come il Traminer Aromatico o il Viognier nei bianchi o il Grenache nei rossi, ai nove anche dieci grammi/litro per vini molto verticali e freschi come potrebbero essere i Riesling vecchio stile della Mosella o qualche spumante ottenuto da uve Durella; ricordiamoci che queste sono solo indicazioni e che non è raro trovare variazioni sul tema.
Durante il passaggio da uva a mosto e infine a vino questi acidi, soprattutto il tartarico, sono presenti in quantità maggiore di quella che il mosto/vino è in grado di sostenere in soluzione, si dice quindi che il vino è una soluzione sovrasatura.
Un po’ quello che succede quando mettete troppo zucchero in una tazzina di caffè bollente, ammesso che sia ancora legale mettere lo zucchero nel caffè: lo zucchero rimane in soluzione finché il caffè è caldo, ma si cristallizza nuovamente sul fondo della tazzina quando il caffè si raffredda. Cosa è successo? È cambiato il cosiddetto “prodotto di solubilità”: senza entrare nei dettagli, non c’è spazio per una lezione di chimica completa, vi basti sapere che se il liquido “solvente”, il caffè in questo caso, è più caldo, la quantità di “soluto”, in questo caso lo zucchero, che sarà in grado di rimanere in “soluzione” è maggiore e viceversa se si raffredda.
Stavamo parlando però di vino, cosa c’entra il caffè? C’entra perché nel vino succede la stessa identica cosa soprattutto con l’acido tartarico, anche se la questione nel caso vino non è così semplice perché a fare da contraltare agli acidi sono presenti anche dei sali basici, in prevalenza il potassio e in misura minore il calcio, più una sfilza di altri sali che però possono essere trascurati in questo caso.
Ricapitolando: abbiamo detto che nel vino sono presenti diversi tipi di acido, che questi acidi sono presenti in quantità maggiore a quella sostenibile in soluzione, che a complicare tutto il discorso sono presenti anche diversi sali basici anch’essi in eccesso e, dulcis in fundo, alcuni di questi acidi sono “attaccabili” da alcuni microorganismi…
Tutto questo ci porta a capire che il mosto e il vino in gioventù è quindi un ambiente che tendenzialmente non è in equilibrio; come sempre succede la Natura tende a portare qualsiasi sistema complesso all’equilibrio e, per evitare che questo accada sulle vostre tavole e dentro le belle bottiglie che trovate al ristorante, solitamente questo processo viene facilitato, se non accelerato, con diverse pratiche enologiche.
Per quanto riguarda l’acido tartarico, questo acido va a raggiungere una stabilità in soluzione dopo la cosiddetta “stabilità tartarica”: si lega infatti in parte ai sali basici all’interno del vino, va a creare i famosissimi “tartrati di potassio” e in misura minore di calcio. Questa stabilizzazione avviene in tempi più o meno lunghi in natura ed è influenzata da molti fattori: i cristalli che si formano vanno a incrostare i vasi vinari producendo delle “incrostazioni” di cristalli, oppure precipitano in bottiglia quando il vino è stato imbottigliato in condizioni non ancora stabili.
Al di là del fatto che questi cristalli sono comunque assolutamente innocui, si possono anche mangiare o, meglio, masticare, a livello estetico possono creare qualche problema, ma è un fattore puramente visivo, da bypassare se possibile. In ogni caso la stabilità si può ottenere in diversi modi prima dell’imbottigliamento: con macchinari specifici, con coadiuvanti detti “colloidi” che impediscono l’unione e quindi la cristallizzazione di sali acidi e basici, oppure a freddo, ovvero raffreddando per un determinato tempo il vino a temperature più basse di quelle che potrebbe raggiungere nel vostro frigo o nella glacette del ristorante di turno, per far precipitare il tartarico in eccesso a quella temperatura.
Detto questo dobbiamo concludere capendo che a livello microbiologico l’acido tartarico è piuttosto stabile, in condizioni normali; quindi, una volta ottenuta la famosa “stabilità tartarica”, questo acido è un argomento che possiamo tranquillamente dimenticare.
Ma veniamo ora all’argomento principe di questa breve spiegazione enoica, l’altro acido più presente nel mosto e nel vino è infatti l’acido malico. Prende il suo nome appunto dalle mele, in cui è presente in buona quantità, e come per le mele tende a donare un gusto fresco, tagliente e pungente.
Questo tipo di sensazioni è molto gradita nei vini bianchi freschi o quando si vuole mantenere una certa “verticalità” o quando l’acidità totale risulta essere bassa e una eventuale malolattica potrebbe comprometterne l’equilibrio generale, oppure ancora in presenza di vini bianchi aromatici in cui spesso i sottoprodotti aromatici di una malolattica vanno a cozzare con il bouquet primario (derivante direttamente dall’uva) del vino stesso.
Come abbiamo descritto prima per l’acido tartarico, anche l’acido malico va incontro a legami con i sali basici presenti nel mosto/vino, ma in misura minore rispetto al primo. L’acido malico ha però una caratteristica fondamentale che fa molto spesso passare notti insonni a qualche enologo: è attaccabile dai famosi “batteri malolattici”. Ma cosa significa attaccabile? Sostanzialmente significa che questi batteri sono in grado di utilizzare e metabolizzare l’acido malico per trarne energia, producendo come sottoprodotto l’acido lattico e una miriade di altre sostanze più o meno interessanti e più o meno utili che conferiscono però al vino un gusto e un aroma anche molto differenti dal vino di partenza pre-malolattica.
Questa sorta di disacidificazione naturale risulta essere molto interessante perché porta con sé innumerevoli vantaggi, l’acido lattico ha infatti un gusto più morbido e rotondo dell’acido malico, per questo è preferibile nei bianchi da invecchiamento o in quasi tutti i rossi, oppure in tutti quei casi in cui si fa la malolattica per evitare molti rischi microbiologici, fra cui le partenze o ripartenze di fermentazioni malolattiche in bottiglia. Quello lattico è un acido estremamente stabile sia a livello di soluzione sia microbiologico; quindi, non è quasi più attaccabile da nessun microrganismo.
Per concludere possiamo sicuramente dire che l’equilibrio e le interazioni fra gli acidi nel vino, la loro espressione a livello chimico misurata con il valore di pH e il loro impatto a livello degustativo e organolettico sono sicuramente più complessi di quanto descritto brevemente qui sopra, ma ci auguriamo che alla prossima chiacchierata fra enofighetti arriviate un po’ più consapevoli e un po’ più preparati su questo argomento, tanto amato quanto complesso, e alla prossima domanda: “malolattica sì, malolattica no” possiate rispondere con un bel “dipende” con cognizione di causa!