Che tristezza sentir dire che la procedura fondativa e costituente delle cosiddette primarie per la scelta dei candidati alle cariche monocratiche (non tanto per la leadership del partito) si applica se ne vale la pena. È triste che non si colga come una procedura dia forma plastica a una organizzazione, che uno strumento è in sé un messaggio, un costruttore di senso.
L’avevamo già sentita da Pier Luigi Bersani per voce di Filippo Penati e poi da tutti quelli venuti dopo. E sia consentito dirlo anche a Matteo Renzi che in questi giorni ha richiamato il valore fondativo di quella scelta: nemmeno durante la sua leadership nel Partito democratico quella scelta fu vissuta come costitutiva di una nuova cultura politica dell’organizzazione. E ci piacerebbe leggere che Italia Viva ponga come auspicio – se non come condizione – per aderire a una alleanza, quella che il candidato venga scelto con la procedura delle primarie aperte.
Ormai è chiaro che chi le aveva accettate o le aveva subite o non aveva capito che quella scelta cambiava la funzione del partito politico e ora che se ne rende conto fa marcia indietro. Realizzare primarie aperte non era solo l’idea di dare voce agli “elettori” cercando di assorbire le spinte populiste ma era l’ambizione di rilanciare l’iniziativa del partito politico nell’epoca dell’ascesa del potere dei media agganciandola indissolubilmente alla funzione di governo. Si istituzionalizzava l’imperativo morale di non fermarsi alla denuncia ma di farsi carico della proposta. Il partito politico diventava sempre più l’organizzatore del processo di selezione del personale chiamato a governare. Agli elettori si riconosceva il ruolo centrale di selettori. Mentre ai candidati o agli aspiranti tali (e ai loro sostenitori) si rendeva esplicito che la loro affermazione doveva passare più dal rapporto aperto con la società che dalla relazione con una oligarchia autoreferenziale, chiusa.
La procedura aveva quindi il compito (per me il valore) di porre il governo, le soluzioni possibili prima ancora che auspicabili, al centro dei discorsi dei candidati. Ancorare la competizione proprio sul terreno delle cose da fare dopo qualche settimana dagli scranni del governo che si dovesse trattare di Palazzo Chigi, del Comune o della Regione.
Poteva essere l’antidoto al movimentismo e, anche, proprio a quel populismo indotto dal crescente potere social-mediatico cui abbiamo accennato. Il definitivo superamento della iniziativa politica intesa principalmente come denuncia non agganciata alla proposta.
Per questo le cosiddette primarie (per le cariche monocratiche ma anche per il Parlamento) avrebbero dovuto plasmare la cultura organizzativa di tutti i partiti che le riconoscevano centrali. Di questo si parlava identificando leader e candidato presidente del Consiglio.
A mio parere è sostanziale poi la differenza che c’è nel ricorrere alle primarie per le candidature monocratiche e quella per la scelta del leader del o dei partiti che ne riconoscessero la funzione. Possono certamente convivere la scelta del segretario di partito con forme congressuali riservate agli iscritti e quelle delle candidature monocratiche in forme aperte agli elettori che sottoscrivono il programma elettorale del candidato.
È però importante riconoscere la grande differenza di senso, non solo di forme retoriche, che vi è nel chiamare i cittadini elettori a scegliere il programma e il suo interprete in un ruolo di governo o una persona leader di un movimento politico non legato all’immediatezza del governo, del trasformare una affermazione valoriale generica in una politica, in alleanze politiche e sociali.
Questo è emerso chiaramente dalle cosiddette primarie per la elezione del segretario di partito democratico svolte pochi mesi dopo una pesante sconfitta elettorale e a grande distanza quindi dalle elezioni politiche generali. Sganciati dalla urgenza del governo i temi della competizione tra i candidati sono diventati opzioni di tipo ideologico, temi identitari non connessi alle fatiche delle politiche pubbliche e della loro implementabilità. Così la capacità di emozionare ha battuto, anche se di poco, quella di governare. Riportando così un partito centrale per la democrazia italiana indietro verso il movimento di denuncia.
Insomma, sembra che abbia vinto il movimento sul partito, ma si sono lette cose sul passaggio da movimento a istituzione molto meno sul cammino inverso.