Visione globaleIl futuro della ricerca passa anche attraverso la sostenibilità dell’abbigliamento tecnico

Trovarsi a meno ottanta gradi o immersi nei campi magnetici dello spazio porta ricercatori e ricercatrici a confrontarsi quotidianamente con condizioni estreme. Per proteggersi e al contempo rispettare l’ambiente circostante è necessario un abbigliamento performante, ma non solo

Courtesy of 7506

In che modo la sostenibilità del futuro passa dalla realizzazione di capi d’abbigliamento tecnico, progettati per condizioni estreme? Ne abbiamo parlato con Alberto Piovesan, co-fondatore e art director del brand 7506 e art director della startup vicentina D-Air lab e che ha partecipato al concorso “Space Suit Design Competition” per la realizzazione delle tute spaziali per Esa (European Space Agency). Tra oltre novanta proposte una giuria di astronauti e ingegneri ha inserito il progetto di Piovesan tra i migliori cinque.

Courtesy of 7506

Che ruolo ha il design nella progettazione di abbigliamento pensato per ambienti estremi come l’Antartide e lo spazio?
Per me il ruolo del design è quello di migliorare continuamente le condizioni di vita delle persone e al contempo proteggerle quando si trovano in ambienti talvolta molto estremi. Il tutto ovviamente con la volontà e l’obiettivo di minimizzare quello che è l’impatto del servizio dell’oggetto sull’ambiente. Il design è la ricerca del perfetto equilibrio tra funzionalità – in questo caso, in termini di sicurezza – e un prodotto responsabile sotto l’aspetto produttivo e di responsabilità ambientale. È frutto di una ricerca tecnica che guarda sia alla performance, sia alla produzione e alla sostenibilità sul lungo termine.

Courtesy of 7506

Il brand 7506 – nato dai laboratori di ricerca e sviluppo di D-Air Lab e la collaborazione con UNLESS, agenzia no-profit dedicata alla ricerca scientifica in Antartide – è basato sull’idea di «incentivare la scoperta, invece che la conquista dei territori e degli ambienti». Mi spieghi questo concetto?
Il brand nasce dalla volontà quasi distaccata dalle dinamiche commerciali. Nasce in primis dalla volontà di proteggere i ricercatori in Antartide, contribuendo quindi alle scoperte che sicuramente porteranno a indagare l’origine del nostro pianeta e dimostrando come poi stiamo andando a rovinarlo, sotto certi punti di vista. La nostra prima volontà è stata quella di riconoscere la presenza di un’esigenza: come indole siamo dei ricercatori e ci siamo impegnati nella ricerca in ambito di abbigliamento tecnico per questo contesto così estremo. C’era poi la volontà di supportare i ricercatori che attraverso le loro attività attività – dagli esperimenti legati al cielo e alle stelle, ai carotaggi nel terreno – vanno a capire il nostro pianeta, per poterlo preservare nel migliore dei modi.

C’è la volontà di scoprire, diversamente da tanti altri brand che propongono capi d’abbigliamento promettendoti di andare in capo al mondo, quasi con un atteggiamento di conquista da parte dell’uomo nei confronti della natura. Noi la vediamo diversamente: quando scopri la natura e rimani a contatto con lei ne cogli la bellezza, le debolezze e impari a rispettarla. Più che con l’idea di conquistarla – in termini di escursioni estreme – la volontà è quella di portarti a conoscerla più da vicino, in modo da sensibilizzarti e imparare a rispettarla e apprezzarla. Questa è la differenza tra scoperta e conquista.

UNLESS, Antarctic Resolution Publication Exhibition. Courtesy of 7506

In che modo questo ha a che fare con la sostenibilità?
Portare le persone a scoprire la natura è un modo per renderle più coscienti dell’impatto stesso che hanno sull’ambiente circostante. Ovviamente non è un subordinare la natura alla presunzione e alla prepotenza dell’uomo, ma è l’uomo che si adatta a vivere quello che è il contesto della natura, che è ben più grande e anche più delicata.

Sostenibilità ambientale e ricerca spaziale. Esiste una correlazione nel processo di progettazione delle tute per lo spazio? Ti sei scontrato con alcune scelte che dovevano tenere in considerazione tutto l’ambito della sostenibilità?
Sì, mi si sono scontrato e mi si scontro puntualmente tutti i giorni quando lavoro nell’ambito estremo. Allo stesso modo con quello che è il progetto 7506 ci siamo interfacciati alla ricerca del bilanciamento tra la sostenibilità di prodotto – o di progetto – e la funzionalità. Per quella che è la mia esperienza quando ti trovi a lavorare in contesti così pericolosi dove c’è in gioco la vita dell’astronauta o del ricercatore ti trovi a fare delle scelte che non sempre vanno a pendere necessariamente e nettamente verso quella che è la sostenibilità del singolo prodotto, a livello materiale.

In questi termini vedo una sostenibilità più su quello che è il progetto, per cui talvolta riuscire a proteggere un astronauta con un determinato lavoro di ricerca aiuta quella che è la ricerca spaziale da un lato e quella che è la ricerca tecnica sull’abbigliamento dall’altro e ovviamente delle ricadute su quello che è il contributo quotidiano. Trovare un equilibrio non è facile quando si parla di meno ottanta gradi o di spazio aperto: è complesso bilanciare la ricerca della membrana perfetta dal punto di vista della responsabilità ambientale e allo stesso modo della membrana che riesca a proteggerti dai più cento gradi del sole o dai meno ottanta del ghiaccio.

UNLESS, Antarctic Resolution Publication Exhibition. Courtesy of 7506

Quanto è difficile raggiungere un bilanciamento tra performatività e sostenibilità?
Nel progetto 7506 siamo estremamente contenti del risultato, perché abbiamo giocato con una componente essenziale: l’aria, che è uno dei migliori materiali per la coibenza (proprietà di un materiale di essere isolante, ndr). Più naturale di questa non c’è. Siamo molto contenti della sostenibilità di progetto, perché contribuiamo alla ricerca in Antartide e alla scoperta del nostro pianeta in ottica di salvaguardia. E poi perché siamo riusciti a creare un prodotto estremamente leggero con pochissimo materiale, fungendosi dell’aria per isolare. La stessa aria che poi i ricercatori ritrovano nelle bollicine nascoste dentro al ghiaccio di milioni di anni fa; quindi, si chiude un po’ il cerchio da questo punto di vista.

In ambito spaziale non sempre e non necessariamente riusciamo a trovare soluzioni così ottimali, perché ritengo che la ricerca nello spazio aiuti – con quelle con tutte quelle che sono le ricadute – ad avere provette che vanno a migliorare quella che sarà la realizzazione dei prodotti, a ricavare soluzioni che poi magari verranno riflesse nei servizi e nei prodotti della quotidianità. Da un lato c’è un bilanciamento sul prodotto che per 7506 abbiamo trovato, dall’altro c’è sicuramente una sostenibilità che riguarda maggiormente il progetto.

Courtesy of 7506

Il termine “sostenibilità”, quindi, deve tenere in considerazione vari aspetti del processo produttivo di un capo tecnico?
Sicuramente: per noi sarebbe peggio realizzare un capo con un materiale iper-responsabile dal punto di vista ambientale, ma che poi non riesce a far fronte a ciò di cui hai bisogno, per cui magari un pezzo viene utilizzato e dopo un anno diventa già inutilizzabile. Talvolta questo bilanciamento – che fa uso anche di materiali performanti – ci aiuta a rendere anche il capo più duraturo nel tempo. La durevolezza incide molto: immagina di dover cambiare tutte le tute ai ricercatori ogni anno, diventerebbe importante e molto impattante sia dal punto di vista economico, sia ambientale.

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