Servizio pubblicoCome la Rai ha cambiato (e cresciuto) l’Italia

Le trasmissioni della tv di Stato sono iniziate il 3 gennaio 1954, nell’indifferenza generale. Da allora, racconta Marco Damilano in “La mia piccola Patria” (Rizzoli), il nostro Paese si è riempito di antenne ed è cambiato tutto: l’immagine, i consumi culturali, la politica e non solo

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Il 3 gennaio 1954, nella quasi totale indifferenza della stampa, partono le trasmissioni televisive. Sono in pochi a vedere, in prima serata, L’osteria della posta, una commedia di Carlo Goldoni. Ma già tre anni dopo, nonostante l’incomprensione degli intellettuali, la tv di Stato avrà cambiato il Paese.

«L’esercizio 1956 resta caratterizzato dall’avvenuta estensione del servizio delle trasmissioni televisive alle regioni centro-meridionali che ancora ne erano prive: altri 15 milioni di abitanti sono così entrati a far parte del circuito nazionale delle teletrasmissioni e posti in grado di usufruire di questo moderno, efficace strumento di progresso sociale, realizzando un nuovo vincolo di collegamento con le popolazioni del resto d’Italia…» Con queste parole di legittimo orgoglio si apre la relazione del Consiglio di amministrazione della Rai sull’attività dell’anno 1956, presentata il 30 aprile 1957. A soli tre anni dall’inizio delle trasmissioni televisive il progetto di estendere la rete della tv a tutto il territorio nazionale è completato, «con anticipo di dieci anni» rispetto ai piani iniziali. Gli abbonamenti seguono il trend: sono appena 88.118 nel 1954, anno di esordio della tv, salgono a 366.151 due anni dopo, raddoppiano nel 1957, superano il milione nel 1958, i due milioni nel 1960, arrivano a 2.600.000 nel 1961. La televisione di tutti: un’indagine Istat rileva che si abbonano laureati, diplomati e «fasce economicamente e culturalmente meno elevate della popolazione», Nord e Sud, anche se «la diffusione ha trovato il suo naturale campo di penetrazione nell’Italia meridionale».

«Sta nascendo un nuovo costume e pochi se ne accorgono» scrive acutamente il critico Piero Dallamano sulla rivista «Il Contemporaneo» già nel 1955. «La televisione, piaccia o non piaccia ai signori che ne detengono le chiavi e la vorrebbero stupida e addormentatrice, sta lentamente minando nelle campagne, sulle montagne, nelle isole tutto un modo di vivere quieto e immobile da secoli: mette mille fermenti, induce all’impazienza e ai confronti, agita la sete del nuovo e del meglio, porta un soffio di civiltà comunque essa sia.»

La tv è l’unica, grande infrastruttura che il governo nazionale porta al Sud, cento anni dopo l’impresa dei Mille. Lascia o raddoppia? di Mike Bongiorno lo vedono in dieci milioni.

Il 3 giugno 1954, a pochi giorni dal congresso di Napoli, fedeli alla regola per cui i cambiamenti ai vertici della Rai anticipano sempre i mutamenti della politica, il governo nomina un nuovo amministratore delegato, l’ingegner Filiberto Guala. Un ex dossettiano che Fanfani ha chiamato alla presidenza dell’Ina-case, l’ente che ha gestito il piano di edilizia popolare voluto dal ministro aretino. «Un uomo piccolo e vivace, ancora giovane, dal viso tondo e pieno di allegria» lo descrive Fabrizio Dentice su «L’Espresso» un anno più tardi, che rivoluziona in pochi mesi l’azienda radiotelevisiva in cui comandano ancora i dirigenti dell’Eiar fascista.

Guala per i dirigenti della Rai è un oggetto misterioso. Clericale al punto di introdurre un codice di autocensura con l’elenco delle situazioni proibite in tv (il divorzio, l’incitamento all’odio di classe, le scene erotiche, «le vesti e gli indumenti non debbono consentire nudità immodeste che abbiano carattere lascivo…»). E innovativo quando intuisce che la tv deve aprirsi alle migliori intelligenze, e seleziona con un concorso quaranta giovani che diventeranno i registi, i funzionari, gli autori, i giornalisti della televisione: Umberto Eco, Gianni Vattimo, Angelo Guglielmi, Furio Colombo, Liliana Cavani, Fabiano Fabiani, Emanuele Milano, Francesca Sanvitale… In Rai li chiamano i corsari: perché usciti dai corsi, perché considerati la truppa d’assalto di Guala, perché desiderosi di conquistare posizioni di potere, in fretta.

Contro Guala scatta il complotto, raccontato da Ettore Bernabei: «Una sera il papa viene convinto ad accendere l’apparecchio per vedere il programma “Giardino d’inverno”. E quella sera, dieci minuti prima della messa in onda, in via Teulada si presentò un omino mai visto da quelle parti, ma con tutte le carte in regola, che impose alle ballerine di ballare senza sottana. Quella sera che tra il pubblico c’era il papa». Il Vaticano reagisce furibondo, la carriera di Guala in Rai s’interrompe qui: entrerà in un convento vicino Roma, come frate trappista.

Il 3 febbraio 1957 comincia il programma ideato da un ex generale di brigata, Giovanni Fiore, direttore commerciale della Sipra, la concessionaria pubblicitaria della Rai, lo spazio pubblicitario della televisione. I dirigenti cattolici conoscono bene il pericolo della manipolazione delle coscienze, sperimentano la via italiana alla pubblicità: solo il 4 per cento dello spot può essere collegato al marchio di un prodotto, su due minuti e quindici secondi di inserzione solo trenta secondi. Il nome dello spazio ricorda il gioco napoletano della palla introdotto dagli spagnoli, ma anche i carusi o i carusielli. Carosello è la strada privilegiata dei persuasori occulti bianchi, invitare a comprare senza svendersi, fare cassa senza perdere l’anima, quasi una metafora della Dc. In quella tv con le calzamaglie nere e mutandoni bianchi, c’è l’happy end garantito dal lancio del prodotto. Non uso brillantina Linetti e basta la parola.

Il Paese si riempie di antenne, la tv arriva in zone isolate da sempre, per la Dc è un simbolo di buongoverno, i notabili locali si prodigano per portare la rete nel loro collegio. I contenuti della programmazione sono in totale aderenza con i valori della Dc: il progresso equilibrato, il ritrovato benessere dopo la guerra, l’anticomunismo, la moderazione, le istituzioni sacralizzate (il capo dello Stato, il governo, i presidenti delle Camere) occupate dai cattolici. Mamma Dc e Mamma Rai sono la stessa cosa.

Gli altri partiti faticano a capire la potenza della televisione. In comune con i cattolici c’è l’idea che il pubblico sia un soggetto passivo: per i comunisti il telespettatore rischia di essere alienato dalla televisione e dunque bisogna guidarlo, per i laici il telespettatore viene «rimbecillito» dai programmi di varietà e dunque bisogna educarlo. Nella tv l’american way of life è simboleggiata dalla spensieratezza e dalla gioia di vivere delle gemelle Kessler e del loro Dadaumpa, la prima colonizzazione della notte italiana.

Alberto Sordi darà volto alla nuova popolarità che il piccolo schermo garantisce ad attori, ballerine, ma anche giornalisti, interpretando nel 1965 il personaggio di Guglielmo il Dentone, l’unico non raccomandato a trionfare al concorso per giornalisti Rai nonostante un evidente difetto fisico che però non lo ostacola, anzi. La tv, la tv di Stato, è democristiana ed ecumenica, accoglie tutti.

Alla Rai Fanfani è di casa. Nel 1958 è insieme presidente del Consiglio e segretario della Dc, c’è il tentativo di trasformare il leader nel primo personaggio politico televisivo della nuova era. Nell’autunno 1958, per la prima volta, la tv italiana trasmette la conferenza stampa di un presidente del Consiglio.

Le pesanti telecamere ammesse al Viminale inquadrano un leader efficiente, sicuro di sé, che snocciola dati, cose fatte e cose da fare, battute di spirito: «Il Consiglio dei ministri si è impegnato a incrementare l’occupazione, non la disoccupazione dei membri del Consiglio stesso». Fanfani si propone direttamente all’opinione pubblica a colpi di tagli di nastri di strade e ospedali, esalta «le ardite e fruttuose imprese» del popolo italiano, inaugura l’io governante che si rivolge direttamente alle masse, considerando il partito nel migliore dei casi uno strumento, il più delle volte un intralcio.
Il 25 maggio 1958 alle elezioni la Dc raccoglie oltre 12.500.000 voti, il 42,3 per cento. Sembra un trionfo, invece Fanfani è alla fine.

«Vedo alle 11 Gronchi, gli dico della mia intenzione di far dare le dimissioni al governo domani o sabato, non appena approvato il bilancio. Egli concorda, ritenendo che uno choch (sic) al Paese e ai Partiti forse farà trovare una strada» annota Fanfani sul suo diario il 22 gennaio 1959. È l’uomo più potente d’Italia. Nel governo nato dopo le elezioni del 1958 Fanfani è presidente del Consiglio e ministro degli Esteri, oltre che segretario della Dc, vorrebbe fare tutto da solo. Preso da una strana inquietudine: correre, correre sempre, non fermarsi mai.

Le sue evasioni fanno tremare la Repubblica. Quando si dimette da tutte le cariche nel gennaio 1959 fa impazzire davvero tutti, amici, nemici, alte cariche istituzionali. Fanfani scompare. Volatilizzato. «Lascerò Roma, mi trasferirò a Milano e insegnerò alla Cattolica» annuncia. Quasi a ostentare il suo completo distacco dai complotti degli amici, si fa fotografare a passeggio con la moglie al Gianicolo. In realtà spera di essere richiamato dai democristiani. E invece quelli non vedono l’ora di sbarazzarsene. Al successivo Consiglio nazionale i dorotei appena nati, il correntone del centro democristiani che comprende esponenti di destra e di sinistra, eleggono segretario Aldo Moro.

Di guerra in guerra, di nemico in nemico, di sfondamento in sfondamento, Fanfani è finito fuori strada.

© 2023 Rizzoli

Tratto da “La mia piccola Patria. Storia corale di un Paese che esiste”, di Marco Damilano, pp. 312, euro 27,00, Rizzoli 2023

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