La Cina non ha superato – come erroneamente previsto per un paio di decenni – l’unica grande potenza di riferimento nel nostro mondo multipolare o di blocchi, frammentati, contrapposti: gli Stati Uniti d’America. Non è accaduto né politicamente (e militarmente), né nell’ambito economico-finanziario. La Cina, insomma, non ci ha mangiato e non ci mangerà. L’economia (di mercato) del Dragone, fusa con una guida politica totalitaria, è in difficoltà e conferma la sua scelta, obbligata, di concentrarsi sul suo sviluppo economico e sui mercati globali, evitando accuratamente insidie geopolitiche: la vittoria a Taiwan di un indipendentista filoamericano è passata in carrozza così come due anni di guerra in Ucraina senza sostenere l’alleato russo, checché ne dica Sergej Lavrov (tra l’altro le banche cinesi a seguito delle sanzioni hanno perfino ridotto i finanziamenti in direzione Russia).
La Cina si propone oggi di svolgere ruoli di mediazione nei vari conflitti in corso, non ultimi i tentativi di chiudere le scaramucce iraniano-pakistane e di rafforzare la pace in Etiopia dove investe massicciamente. Insomma le difficoltà economiche della Cina la portano a evitare qualsiasi escalation nella competizione geopolitica con gli Stati Uniti e a tutelare in primis la stabilità politica e quindi i mercati e il commercio mondiale, dei quali non può fare a meno. Gli Stati Uniti, alla faccia delle fosche previsioni, guidano in salute l’economia mondiale e continuano, loro sì, a svolgere un ruolo geopolitico da grande potenza, in Ucraina come in Medio Oriente o a Taiwan.
Il Pil pro capite statunitense è quattro volte quello cinese, il rapporto debito/Pil della Cina è cresciuto recentemente più di quello americano e il 42,5 per cento del mercato azionario globale – dati al secondo trimestre 2023 – è in mani americano, esattamente quattro volte la presenza cinese (10,6 per cento). L’indice Shanghai 50 è sceso ai minimi da sette anni e negli ultimi dodici mesi ha perso il ventuno per cento al contrario degli indici americani che hanno messo in tasca grandi risultati nel 2023. L’andamento dei mercati azionari è un indicatore chiave della forza economica e sociale di un paese, riflettendo trasferimenti di capitali – influenzati dalle politiche monetarie così come dalle dinamiche geopolitiche – e si traduce in risorse e più competitività per le imprese e, prima o poi, in occupazione, salari più alti e tenore di vita migliore di parte dei cittadini.
Anche la classifica dei primi cinquecento gestori patrimoniali è significativa riflettendo il potere di investire risparmi di cittadini e imprese e di acquistare asset in giro per il mondo condizionando le scelte politiche. L’ultimo studio del Thinking Ahead Institute relativo ai dati 2022 ci dice che il 54,1 per cento del valore totale del risparmio è in mano a gestori americani – dieci anni prima era il 48,7 per cento – il 4,7 per cento a gestori cinesi. Nei primi venti gestori, quattordici sono statunitensi, il primo gestore cinese è in trentottesima posizione. Gli investitori internazionali hanno venduto nel 2023 circa trenta miliardi di dollari di azioni cinesi e 4,6 all’inizio del 2024 a dimostrazione di quanto possano pesare i grandi gestori negli equilibri economico-finanziari globali.
L’impetuoso sviluppo economico cinese degli ultimi decenni ha portato il Dragone a un forte, inevitabile, rallentamento, rispetto a un’economia in maturazione che si sta riposizionando nei processi di produzione e crescendo come potenza industriale a rischio di nuovo concreto di reazioni protezionistiche, assolutamente da evitare. La Cina oggi ha la necessità di garantire uno standard di vita migliore alla popolazione, che non si accontenta più di essere arrivata in città e aver conquistato il bagno in casa e i figli a scuola, ha altre nuove aspirazioni, salari migliori compresi e un vero stato sociale, oggi la popolazione urbanizzata è chiamata anche a fornire mano d’opera qualificata e a far crescere i consumi.
Il rallentamento cinese è caratterizzato da una profonda crisi immobiliare (il settore con l’indotto contribuisce a oltre il venti per cento del Pil del Paese e gli investimenti sono diminuiti del 9,6 per cento nel 2023), da un export che nel 2023 è tornato a scendere – e in questo senso la Cina non può permettersi un ulteriore calo delle esportazioni verso gli Stati Uniti e dei disinvestimenti occidentali -, da una crescita del PIL 2023 al 5,2 per cento, la più bassa dal 1989 al netto del periodo della pandemia, destinata a calare ancor più nel 2024, da un tasso di natalità al minimo storico nel 2023 e quello di mortalità al massimo, da alta disoccupazione giovanile, da una moneta che tuttora copre una quota irrilevante dei pagamenti internazionali rispetto a dollaro ed euro e da un tasso di cambio indebolito, le Big Tech cinesi, infine, stanno riducendo gli investimenti perdendo la sfida con le concorrenti statunitensi. Insomma, un nuovo attore globale è sulla scena ma non può far da solo, non può più ambire a superare l’unica potenza rimasta, gli Stati Uniti, dipende in primis dal mondo libero sviluppato, e di tutto questo ne sembra essere consapevole.