Spiagge in un pomeriggio nebuloso di fine estate. L’aria salmastra permea le narici. Una sensazione di nostalgica malinconia trasuda dalle pareti delle colonie costruite durante il regime, poco distanti dal mare. I bambini che le hanno vissute sono andati via, nessuno tornerà più qui, dove vivono solo i ricordi. Il vento garbino si infila tra le maglie dei vestiti, portando con sé il suggerimento di una stagione nuova, che si attenderà dal litorale. Sono scenari, quelli nei quali Federico Cina immerge le sue collezioni, che sono figli diretti del “Fantarealismo felliniano”.
I colori della linea di abbigliamento eponima sono un arcobaleno di beige sui quali vibrano bagliori metallici, e guardano invece a panorami desolanti: gli stessi nei quali, in una Ravenna disabitata (eccola ancora la Romagna di ritorno) si perdeva Monica Vitti in Deserto rosso.
Radici etnografiche ed estetiche sognanti a modo loro, che Cina ha introiettato senza essersene reso conto, e che fanno parte del Dna di quella zona d’Italia, capaci di permeare ogni cosa, infilandosi nei calici di lambrusco, o tra le pagine sbiadite dei quaderni delle presenze in una remota sezione provinciale del Partito Comunista.
«Conosco il loro lavoro, ma non mi sono mai soffermato a riflettere su una connessione tra me e l’estetica di questi grandi artisti», ammette con un’onestà naif, quando lo raggiungiamo nel suo ufficio tramite una Zoom call in un luglio torrido. Alle sue spalle, un muro bianco al quale sono appese foto, ispirazioni, fogli macchiati da un tratto a penna troppo distante per essere leggibile. Cina, classe 1994, di Sarsina, paese di 3.500 anime, sta sbrigando le ultime faccende prima di partire per le vacanze «a Stoccolma e Copenaghen, del caldo non ne posso più» ironizza, passandosi una mano sugli occhi stanchi.
Giovane nel senso anagrafico del termine Cina sente già l’età adulta arrivare. «Ad aprile ne faccio 30, mi sento vecchio», confessa tra il serio e il faceto. Forse per questo desiderio di sconfiggere il ticchettio dell’orologio che scandisce i minuti, gli anni che passano, ha inanellato in poco tempo, esperienze notevoli.
Mentre studia al Polimoda di Firenze arriva l’opportunità di lavorare da Brooks Brothers: «Alternavo lo studio al lavoro e alla fine del terzo anno ricordo di aver finito di lavorare per la mia collezione scolastica all’una di notte ed essermi imbarcato per New York (dove operava Brooks Brothers, ndr) alle cinque. E poi gli insegnamenti che ho tratto lì me li sono portati dietro sempre: gli americani sono schematici. I sogni che hai quando pensi a come potrebbe essere una collezione si scontrano con la praticità dell’ufficio tecnico, dove i tessili venivano testati per capire se erano durevoli abbastanza, e la realtà ha sempre la meglio».
Un inizio a cui poi è seguita una borsa di studio del Polimoda, grazie alla quale ha passato sei mesi all’Osaka Bunka Fashion College. Il confrontarsi con un emisfero diverso dal suo sembra aver prodotto più entusiasmo che sconforto in questo ventinovenne nipote di contadini emiliani, con il papà impiegato nell’edilizia e la mamma assunta all’Amadori, e poi le zie, necessarie fate madrine, come in ogni narrazione cinematografica che si rispetti (una gli ha insegnato a cucire, l’altra – amante del prodotto finito, più che del lavoro necessario a realizzarlo – lo accompagnava nelle boutique locali e a comprare i giornali di moda il martedì mattina, giornata di mercato nella piazza di Sarsina).
La sua immaginazione, cresciuta a pane e nostalgia di una Romagna dolceamara, si è così tramutata in denim dall’effetto degradè a rievocare le saline di Cervia, abiti asimmetrici in tessuti naturali e ruvidi che sembrano arsi al sole (collezione primavera-estate 2023, Salsedine), maglieria patchwork con tagli a vivo nella quale sprofondare, come sotto una rassicurante coperta (collezione autunno-inverno 2023, Appartamento), orecchini come sculture ispirate alla terracotta di Faenza e grembiuli scuriti ad hoc per ricreare l’effetto di usura del tempo e del lavoro (collezione primavera-estate 2024, Terra).
Un esercizio stilistico apprezzato dagli insider – nel 2019 è arrivato il premio di Who’s on Next e nel 2022 la semifinale dell’LVMH Prize – che contemporaneamente è percorso psicologico, riflessione all’alba della maturità su cosa rimane delle illusioni dell’adolescenza, su onori e oneri del diventare grandi: le sfilate si trasformano così in performance. In Terra, i modelli portano in passerella delle casse di frutta, a ricordare l’Orto dei frutti dimenticati, a Pinnabili, immaginato da Tonino Guerra come “museo dei sapori utile a farci toccare il passato”, e poi null’altro. Una nudità non gratuita ma necessaria, che va all’essenza del rapporto dell’essere umano con il Genius loci. In Appartamento, una raccolta fotografica di Joanna Piotrowska, intitolata Frantic, spinge i modelli a camminare con delle sedie al braccio, residuo di un focolare domestico destinato a trovare nuova collocazione, tra un trasloco e l’altro.
«Le foto di Gabriele Basilico o di Luigi Tazzari mi ispirano spesso, ma se trasformo le sfilate in performance è anche grazie alla direzione creativa del mio team (i coetanei Gabriele Rosati e Luca Notarfrancesco), che sono appassionati di arte performativa», ammette Cina con il candore di chi non ha un ego gargantuesco da sfamare. La sua firma autoriale ha colpito riviste internazionali come Wallpaper*, celebrities locali e straniere (Dargen D’Amico e Gigi Hadid), tramutandosi in lettera d’amore a una regione, che viene aggiornata ogni sei mesi e raggiunge i negozi di California, Germania, Turchia, Giappone e Cina. Mentre progetta il futuro, Cina rimane però saldamente in Romagna, dove ha il suo quartiere generale, e dove collabora con una fitta rete di maglifici e piccoli laboratori, gemme nascoste nell’entroterra che, se schiuse, rivelano saperi antichissimi, come nel caso della stamperia Marchi, che utilizza ancora un mangano del 1663, ruota in uso sin dall’Antica Roma per pressare i tessuti, e oggi unico esemplare al mondo.
Alla stampa si procede poi con timbri in legno intinti in colori naturali: così nasce il disegno delle viti, ormai suo marchio di fabbrica, che decora jeans e camicie in lino. «La sostenibilità non può essere solo ambientale, ma anche umana», spiega Cina. «Utilizzare filati certificati è il minimo. Il passo successivo è sostenere le produzioni locali e cercare un compromesso con le loro tempistiche, che non sono quelle industriali. E poi, sai, a volte in questo mestiere si tende a diventare bruschi, poco umani: il mio brand riflette me e spero anche la mia terra, quindi cerco di fare del mio meglio per non cadere in certi stereotipi, e mantenere intorno a tutto quello che creo un’energia positiva». Un designer, Cina, con il vizio romagnolo della gentilezza. Questo sì, sembra quasi un sogno.