Fiamme sul Mar RossoLa millenaria storia degli Huthi spiega la scelta di sabotare il canale di Suez

Il gruppo ribelle di matrice zaidita dello Yemen sta giocando un ruolo chiave per gli equilibri della penisola arabica

LaPresse

Huthi è un nome di persona. Anzi, di famiglia. Gli al-Ḥūthī nascono come clan nel Nord-Ovest dello Yemen, al confine con l’attuale Arabia Saudita. È infatti tra i monti Asyr che scorrono paralleli al Mar Rosso che si trova l’altopiano dove sorge Huth, la loro città natale. Oltre a essere un cognome, Huthi sta quindi per «la gente di Huth», stanziati lì dopo una scissione dall’ancora più antica tribù arabica degli Banu Hamdan. Ritornando dai tempi di Noè a un’epoca più recente, fu la remota localizzazione di queste terre a differenziare gli Huthi dai loro vicini.

Mentre nell’VIII secolo il corpo smembrato di Zayd al-Ḥusayn viaggiò come memento per tutto il califfato, reo di essere insorto contro il califfo omayyade di Damasco, lo zaidismo mise invece radici profonde a Huth. Fu così che gli Huthi rimasero unici custodi dello sciismo zaidita, proprio perché situati in un luogo tanto remoto da sfuggire persino alla sorveglianza dei solerti funzionari califfali. Forse si convertirono affascinati dal suo carattere militante e meritocratico dato che per Zayd non era il sangue a stabilire il rango di un capo musulmano, ma la sua capacità di condurre i credenti alla vittoria.

Il territorio rimase comunque sotto la gestione dei successori dei califfi fino alla caduta dell’Impero Ottomano, ma nel 1918 questa parte di Yemen si rese indipendente assumendo la suggestiva forma-Stato dell’imamato (che già gli Huthi usavano da secoli). L’imamato durò soltanto fino al 1962, quando in Yemen scoppiarono dei moti repubblicani. Dopo otto anni di lotta, gli Huthi persero infatti contro i ribelli, sostenuti dall’Egitto di Gamal Abd el-Nasser. Gli egiziani parteciparono addirittura inviando soldati sul campo, perché la strategia nasserista puntava a un preda ancora più ambita: la colonia britannica di Aden, nel Sud dello Yemen, e i britannici abbandonarono il Protettorato di Aden in effetti già nel 1967, sia in seguito ai moti locali sia all’instabilità prodotta dalla guerra voluta da Nasser.

Dall’addio di Londra nacque uno Stato yemenita meridionale dotato di una costituzione apertamente marxista, che si riunì con la sua controparte nordica nel 1990. In tutto questo gli Huthi, privati ormai del loro imamato e del loro imam-re, si ritirano nella loro culla storica. Sentendosi in declino, nel 1992 gli Huthi si rilanciano fondando il Movimento della gioventù credente (al-Shabāb al-muʾmin) allo scopo di diffondere il loro credo sciita zaidita. Un gruppo che si rivelò utile nel 2003 quando, in occasione dell’invasione statunitense dell’Iraq, gli Huthi organizzano violente proteste nelle quali scandirono per la prima volta gli slogan anti-statunitensi e anti-israeliani che diverranno poi parte del loro motto ufficiale («Dio è sommo, morte all’America, morte a Israele, maledizione sugli ebrei, vittoria per l’Islam»).

Dall’inizio della sua fase repubblicana lo Yemen è però amministrato ininterrottamente dal regime di ‘Alī ‘Abd Allāh Ṣāleḥ – un grande alleato di Washington – che ha cercato di reprimere le proteste, ottenendo al contrario di infiammarle. Ḥusayn Badr al-Dīn al-Ḥūthī, il leader del clan, utilizza il gruppo parallelo dei Partigiani di Dio (Anṣār Allāh) per dare vita a un’insurrezione contro la capitale San’a’. L’esercito lealista ha risposto quindi duramente uccidendo quasi subito Ḥusayn ed è la sua morte a identificarli dunque come «gli Huthi» nel lessico comune, invece dell’ufficiale denominazione Anṣār Allāh. È in questo ennesimo scontro fratricida, durato sette anni, che nascono i primi contatti tra gli Huthi e l’Iran degli ayatollah per la fornitura di denaro e armi.

L’esercito ha tuttavia un vantaggio materiale tale da costringere i ribelli a una tregua che riporta la situazione a un fragile equilibrio, almeno fino alla “primavera araba”. Come nel resto del Medio Oriente, nel 2011 scoppiano infatti anche in Yemen proteste contro la dittatura e le condizioni di vita miserrime nel Paese. Ṣāleḥ si è visto obbligato a cedere il potere e, a poco a poco, gli Huthi hanno approfittato della situazione per entrare dei palazzi di San’a’.

In un tentativo spregiudicato di riprendere il potere, Ṣāleḥ si è alleato però a sorpresa con gli Huthi stessi. I suoi vecchi nemici si sono così integrati nell’esercito e nell’amministrazione e, ormai divenuto un inutile peso, hanno ucciso Saleh nel 2017. Un cecchino di Anṣār Allāh lo ha colpito mentre tentava di fuggire dalla Capitale, accortosi troppo tardi dell’errore commesso nel fidarsi dei zaiditi.

L’intervento saudita-emiratino in Yemen si innesta in questa situazione complicata. Preoccupati dalla scalata al potere degli Huthi e dai loro legami con gli sciiti iraniani, già nel 2015 i Saud avviano una campagna di bombardamenti spesso malguidata e sanguinosa. L’impiego di mercenari sul terreno non ottiene risultati migliori e nel 2022 si arriva a un nuovo cessate il fuoco che cristallizza la presa degli Huthi sul potere.

Nel frattempo però le condizioni economiche dello Yemen peggiorano e la risposta degli Huthi alla crisi si limita alla lunare reintroduzione della schiavitù, uno “stimolo produttivo” che li accomuna alle pratiche di Daesh verso gli ezidi. Nonostante tali enormi problemi, il 2022 ha visto comunque la fine dei combattimenti in uno Yemen diviso in tre parti: il Nord-Ovest sotto il controllo degli Huthi e il resto al governo riconosciuto internazionalmente e al Consiglio di Transizione del Sud (quest’ultimo di stampo secessionista, ma tecnicamente subordinato al governo ufficiale).

Come nel 2003, un’invasione ha però fatto saltare ogni diga all’incontinenza rabbiosa degli Huthi. Il loro attuale condottiero – il giurisperito islamico quarantaquattrenne Abdul-Malik al-Ḥūthī, detto “Țarīqa” – ha condannato l’invasione israeliana del territorio della Striscia di Gaza, giurando ritorsioni per indurli alla ritirata. All’inizio si è trattato di missili balistici e droni diretti contro Israele stessa, ma la grande distanza ha reso poco efficaci questi attacchi. Così gli Huthi hanno deciso di colpire un punto strategico del commercio mondiale. Sfruttando la loro posizione privilegiata sulla riva orientale dello stretto di Bāb el-Mandeb (“Porta del lamento funebre”) hanno iniziato a colpire i navigli commerciali legati a Israele o ad armatori israeliani in navigazione da e per il Canale di Suez, passando poi ad attacchi indiscriminati.

Allo schieramento di armi e navi da guerra occidentali, gli Huthi hanno poi risposto in maniera muscolare: le stesse fregate statunitensi si sono dovute difendere da ordigni e droni lanciati contro di loro. Adesso la situazione nella zona appare in uno stallo, ma i militanti di Anṣār Allāh non sono famosi per tirarsi indietro da una escalation e rimane l’eventualità che impieghino i loro droni navali kamikaze.
«Al momento non vedo alcuna possibilità per la ricomposizione dello Yemen in un’unica entità politica», dice Eleonora Ardemagni, esperta in affari yemeniti e Senior associate research fellow dell’Ispi. «La situazione attuale sembra invece suggerire un prossimo probabile peggioramento delle condizioni di sicurezza dell’area. Agli Huthi manca la possibilità di espandersi nel resto dello Yemen perché non hanno consenso tra le popolazioni e i gruppi armati del Sud. Stesso discorso per il Consiglio di Transizione del Sud, che di fatto governa Aden, rispetto ai territori controllati dai miliziani di Anṣār Allāh. Il governo riconosciuto internazionalmente non ha le capacità militari e le risorse economiche per attuare qualsiasi processo di riunificazione, costringendo il Paese a una condizione di perpetuo localismo».

Così come il Paese, anche l’operazione “Prosperity Guardian” a guida statunitense soffre di un alto tasso di incertezza. Adesso si è giunti a una campagna di bombardamenti statunitensi e britannici contro le infrastrutture miitari Huthi, ma dopo il fallimento degli obiettivi dell’intervento militare saudita del 2015 non è possibile prevedere quanto saranno efficaci nello scoraggiare nuovi attacchi. Anzi, dal punto di vista politico un’operazione di questo tipo potrebbe galvanizzare ulteriormente gli Huthi abituati da tempo immemore alla guerra.

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