Nei giorni scorsi i telefonini e i tablet di dodici regioni italiane sono stati scossi da un momento all’altro da un suono fortissimo, pulsante, spaventoso bip-bip-bip, forse l’apparecchio sul punto di esplodere, forse qualcosa di peggio… No, non era scoppiata la terza guerra mondiale (non ancora, per fortuna): era un alert. Cioè un «messaggio di test del sistema di allarme pubblico italiano»
che, «una volta operativo, ti avviserà in caso di una grave emergenza». In buona sostanza, sia pure soltanto simulata, un’allerta. Ma perché alert?
Augurandoci di non dover ricevere un giorno un alert reale (e magari di evitare il più possibile anche quelli di prova, che un po’ di ansia la seminano comunque), un piccolo motivo di allarme si deve tuttavia riscontrare. Da qualche tempo c’è in giro in giro un baco vorace che si mangia parti delle parole, una consonante qua e una vocale là, come in questo caso, ma che è ghiotto soprattutto delle vocali finali.
Per esempio: ormai non c’è azienda grande o minuscola, società di servizi, organizzazione qualsivoglia che non sbandieri la sua mission. La parola mission ha in inglese esattamente la stessa gamma di accezioni della nostra “missione” (dal latino mittere, mandare), compresa quella che designa l’insieme dei missionari mandati in un determinato luogo per diffondere una fede religiosa, nonché la loro residenza. Ma, nei paesi di lingua anglosassone, ha assunto un ulteriore significato più specifico, per definire il complesso dei princìpi guida, degli scopi e dei valori che informano l’attività di un’azienda e ne rappresentano in definitiva la ragion d’essere. È un’estensione semantica perfettamente compatibile con la parola missione, che ha però il difetto di evocare fervorose sollecitudini apologetico-assistenziali – quelle, appunto, dispensate dai missionari, categoria benemerita ma sentita come un po’ fuori del tempo nell’era dell’efficientismo tecnocratico riverberato dalla sonorità fricativa postalveolare del termine inglese che tanto amiamo farci frusciare in bocca. Così che anche noi ci atteniamo alla mission, e la ripetiamo ogni volta che si può.
Ma il baco mangiavocali ha colpito anche un’altra parola che nel lessico aziendale alla mission è strettamente correlata, così correlata che spesso le definizioni reperibili in rete (i vocabolari italiani ancora non l’hanno registrata) sono del tutto sovrapponibili: stiamo parlando della vision. Anche in questo caso, il termine inglese presenta un ventaglio di significati non dissimili da quelli del corrispondente italiano, sufficientemente ovvi da rendere inutile qui riportarli: ci limitiamo a citarne uno, quello che lo caratterizza come la “capacità di pensare o pianificare il futuro con grande immaginazione e intelligenza” (Oxford Dictionary). È su questa apertura temporale – condivisa dal lessico italiano: “un leader dotato/carente di visione” – che si fonda la definizione specificamente più differenziata del termine, “utilizzato in economia e gestione aziendale per indicare la proiezione del contesto e dello scenario futuro in cui l’impresa intende operare” (insidemarketing.it). Per dirlo in parole povere, mentre la mission risponde alla domanda “perché esistiamo?”, la vision risponde a “dove vogliamo arrivare?”. Già, ma perché dirlo così?
E perché lasciare che l’insaziabile baco si sbafi anche la “o” di sentimento? Sentiment, nella lingua inglese, ha più o meno lo stesso valore del termine italiano, in riferimento agli stati d’animo e alle esperienze emotive di un individuo, o anche, in ambito letterario e linguistico, in riferimento all’atmosfera emotiva di un testo; ma ha sviluppato altresì una più ampia dimensione superindividuale, a indicare uno stato d’animo diffuso e in particolare, in determinati contesti tecnici, un aggregato di opinioni, formate per lo più sulla base di sensazioni e quindi non verificate, condivise all’interno di un gruppo. Si parla per esempio di sentiment – o più dettagliatamente di investor sentiment, o in altri casi di client sentiment (qui il baco ha colpito duro) – in ambito finanziario, per riferirsi all’umore degli investitori e dei correntisti rispetto al mercato mobiliare; oppure, in ambito commerciale, in relazione al modo in cui determinati marchi sono percepiti dal pubblico. In questi casi, effettivamente, non è facile trovare un esatto corrispondente nella lingua italiana. Ma non è detto che la medesima parola “sentimento” non potrebbe, nell’uso, sviluppare a sua volta una analoga connotazione collettiva e quindi fungere alla bisogna.
In fondo si tratta di “dire quasi la stessa cosa” (irresistibile tentazione del titolo di Umberto Eco): e allora perché ricorrere al termine quasi uguale, e però monco e con l’accento ritratto? È proprio necessario che il “competitore”, cioè colui che compete con altri, diventi un competitor, colui che più specificamente compete in campo economico, ossia – per dirlo con la sua puntuale traduzione – un “concorrente”?
Diverso è il caso di altre parole, che somigliano a quelle italiane ma nel contesto inglese hanno assunto un significato differente e con questo differente significato ci sono tornate. Per esempio editor. Qui non c’entra il solito baco (non facciamone un baco espiatorio di tutti i peccati linguistici): editor in inglese non è l’editore, che si dice publisher, ma – prescindendo dall’accezione tecnica nel campo dell’informatica – è il direttore di un giornale o il responsabile di una sua sezione, il giornalista che in redazione lavora su una certa area di notizie, e anche il redattore che in una casa editrice sceglie i testi da pubblicare, li controlla e se necessario li ripulisce e li corregge, ossia “fa l’editing”. Ed è a questa figura professionale che pure nella nostra lingua si attaglia l’insurrogabile termine editor. Baco prosciolto, dunque, per una volta. Ma intanto non desiste dal suo lavorio famelico, perché, come il verme della poesia di Poe, è per sua natura conquistatore e indefessamente s’avanza. Già lo sentiamo. Bip-bip-bip-bip-bip… Alert!