Dici fiera e pensi ai grandi capannoni, migliaia di persone, pensi alle grandi fiere del vino o della mixology, gli stand faraonici (e alle volte pure un po’ ridicoli), gli ingorghi del traffico generati dallo spostamento di tantissimi visitatori. Ecco, ridimensioniamo subito l’idea, perché in questo caso parliamo di una manifestazione piccola, quasi un evento di degustazione, che però riunisce per la prima volta in Italia sotto il nome “fiera” un gruppo di produttori e distributori di bevande a basso o assente contenuto di alcol, con lo scopo di creare un’occasione di incontro tra professionisti.
No/Lo Bolo è in programma questo 15 gennaio dalle 15 negli spazi di Zoo Community Bakery, nel centro di Bologna, e ospita i banchi d’assaggio di ventisei partecipanti tra produttori e distributori, per un pomeriggio in modalità walk around tasting rivolto a operatori di settore come ristoratori, bartender e rivenditori.
L’idea l’hanno avuta Riccardo Astolfi, Nicolò Pagnanelli e Sofia Girelli, tre ragazzi che con passione si dedicano alla ricerca e all’esplorazione di questo campo tra startup, consulenze e progetti innovativi. A differenza di quanto si possa pensare, non si tratta di dry january o di un’iniziativa rivolta soltanto ad astemi e salutisti, la fiera intercetta un’esigenza di mercato ben precisa.
Cos’è No/Lo Bolo, la prima fiera italiana degli analcolici
«Ci siamo incontrati perché siamo tutti attivi nel campo delle bevande innovative. Io mi occupo di fermentati e Sofia lavora sul tema del no-lo, mentre Riccardo segue diversi progetti e startup», racconta Nicolò Pagnanelli, che con il suo Spontaneous Lab fa formazione e consulenza nell’ambito delle fermentazioni e del foraging.
L’inizio non potrebbe essere dei più semplici, ma ha tutta l’aria di aver incrociato una necessità più grande di quanto suggeriscano le dimensioni dell’evento. All’appello di questa prima edizione hanno infatti risposto in ventisei, tra produttori e aziende di importazione e distribuzione, tra le quali spicca anche uno dei più noti brand dell’e-commerce del vino italiano, Call Me Wine.
In degustazione, una serie di prodotti che si stanno proponendo sul mercato come alternative alle classiche bevande alcoliche, come quelle che sostituiscono vino e birra, le bevande fermentate, in particolare kefir e kombucha, infusi analcolici alternativi agli spirits, sode e tante bevande anche sperimentali.
I produttori sono in gran parte italiani ma, grazie agli importatori, sui banchi d’assaggio arrivano anche etichette danesi, svedesi, norvegesi, spagnole e non solo.
Come si partecipa? Per il momento No-Lo Bolo non ha un sito web né pagine dedicate sui social. La comunicazione passa attraverso i profili Instagram di Nicolò Pagnanelli (@funky.bacteria), Riccardo Astolfi (@riccardoastolfi) e La Sobreria (@la___sobreria), progetto di Sofia Girelli. L’ingresso è gratuito tramite registrazione, che si effettua attraverso un modulo accessibile al link sul profilo de @la___sobreria.
Cosa si trova a No/Lo Bolo, tra creatività e sperimentazione
Quello del no-lo (sigla abbreviata che fa riferimento alle bevande no e low alcohol, ad assente o ridotta gradazione alcolica) è un ambito in via d’espansione, che ha ricevuto una notevole accelerazione anche a seguito della spinta salutista generata dalla pandemia.
Accanto a molte grandi aziende dell’industria del beverage, c’è un modo fatto di piccoli produttori, in gran parte giovani, che ricerca e crea prodotti completamente nuovi, per il momento anche difficili da classificare, come diverse delle bevande annunciate in fiera. «Si tratta di un settore giovane in cui la gente lavora con passione in un campo inesplorato» spiega Sofia Girelli. «Si procede con creatività, mettendo in gioco anche le convenzioni comuni della socialità, dello stare insieme e del bere».
Questo tipo di visione trova terreno fertile nella Gen Z, ma incrocia una domanda trasversale e latente che può partire dalle necessità più disparate. «Tra le persone con cui vengo in contatto c’è chi beve poco, chi alterna l’analcolico all’alcolico e chi, come me, per questioni di salute non può bere alcolici, ma ci sono anche tantissimi curiosi, sempre felici di provare qualcosa di nuovo», dice Girelli.
In un questo senso, un interessante campo di sperimentazione è offerto ad esempio dagli ingredienti con una forte appartenenza territoriale. «Quando si sviluppa una bevanda analcolica – spiega Nicolò Pagnanelli – si può facilmente racchiudere il concetto di terroir. Si possono utilizzare frutti ed erbe che fanno parte di un habitat specifico, caratterizzato da una diversità microbica in grado di conferire un apporto irreplicabile al prodotto. Nei kombucha, ad esempio, le possibilità sono infinite. Si può partire da diverse tipologie di tè, di acqua e di colonie microbiche per la fermentazione, diversi ingredienti da utilizzare in infusione, raggiungendo diversi livelli di zucchero residuo e acidità. A No-lo Bolo sono rappresentate molte di queste differenze» dice.
«Ha davvero poco senso relegare la domanda di bevande senza alcol a una nicchia di tristezza in contrapposizione a tutto ciò che è alcolico. Gli analcolici possono essere creativi, e avere anche un terroir».
C’è poco da fare i fondamentalisti
La storia della nicchia di tristezza in effetti in giro la si sente, ma ci vuole pazienza, il nostro è un mondo in cui se non hai un’opinione polarizzata non traini interazioni sui social e non fai notizia, quindi o sei con l’alcol o sei contro l’alcol.
Per fortuna, a suon di mocktail e fermentati negli ultimi anni questo pregiudizio si sta erodendo e, sebbene anche le bevande analcoliche stiano facendo i conti con l’inflazione, come tutti i beni che non sono di prima necessità (alcolici inclusi), all’inizio dello scorso anno l’International Wine and Spirits Research (Iwsr) aveva pubblicato qualche dato che dovrebbe far riflettere. In base a un’indagine svolta tra i più importanti mercati a livello globale, il 78 per cento dei consumatori di bevande a ridotto o assente contenuto alcolico consumano anche bevande ad alta gradazione e il 41 per cento di essi sono classificati come “sostitutori”, vale a dire quelli che consumano bevande analcoliche o a basso tenore alcolico nelle occasioni in cui vogliono evitare il consumo di alcol.
Quanto agli astemi, secondo la stessa indagine di Iwsr, rappresentano solo il diciotto per cento dei consumatori di prodotti no-lo, anche se nella maggior parte dei mercati la categoria è in crescita, soprattutto tra i più giovani. Una domanda che chiunque abbia un po’ di polso sul mercato sa di non poter ignorare.
La domanda di prodotti no-lo c’è e ha margine di crescita, ma spesso l’offerta, nonostante mocktail e bibite di vario tipo, ancora non riesce a soddisfarla con una sufficiente quantità di alternative. Secondo Sofia Girelli «parlando con gli agenti di vendita si rileva una mancanza. Per ristoratori è spesso difficile organizzare i diversi fornitori e se i distributori offrissero un catalogo di analcolici più ampio, anche i loro clienti ne trarrebbero beneficio».
Vedremo quindi se No-lo Bolo riuscirà ad aprire una strada nuova anche per il frangente distributivo. Nel frattempo una cosa è certa, chi è convinto che il no-lo sia solo una questione per astemi e salutisti ha fatto male i conti.