«Questo vino è aceto», si diceva – e si dice tuttora, seppur con maggior circospezione – per indicare un vino cattivo, in cui probabilmente qualcosa era andato storto con le fermentazioni. Tra i cinque gusti fondamentali (dolce, amaro, aspro, salato, umami) quello acido, o aspro appunto, è forse il più ostico, il meno ricercato.
Eppure è importantissimo, anche perché interagisce con gli altri: riesce ad esempio a smorzare il dolce o a rafforzare le percezioni sapide, così come sottolinea ed esalta le sfumature di sapore di molti alimenti.
Ecco perché un piccolo ma crescente numero di chef sta lavorando molto nel sondare le potenzialità della – o meglio, delle – acidità. E ora la “deriva acida” arriva anche nel bicchiere.
Calici acidi, dal Belgio al Giappone passando per gli Stati Uniti
Non che si tratti di una novità tout court, naturalmente. A cominciare dalle birre sour, le “acide” appunto, tipiche di una certa produzione belga ma che da tempo hanno preso piede anche da noi, conquistando piccole ma appassionate compagini di bevitori e più di qualche birraio.
«Nella birra, come in altri ambiti, ci sono delle tendenze che si alternano ciclicamente. Oggi c’è grande attenzione alle basse fermentazioni, ma quella delle birre acide resta una nicchia di mercato sempre piuttosto stabile: si tratta di un pubblico alto-spendente e fidelizzato, a prescindere dall’età, e sempre attento a release nuove», spiega Andrea Turco, fondatore e curatore del sito specializzato Cronache di Birra.
«Le produzioni italiane interessanti non mancano. Penso a progetti come Ca’ del Brado, Cantine Erranti o Maestri del Sannio, partiti già da qualche anno: prendendo ispirazione dalle tradizioni belghe di prodotti come Kriek o Lambic, lavorano molto bene sugli ingredienti locali, dalla frutta ai grani antichi, o anche i mosti d’uva di vitigni autoctoni come in alcune Italian Grape Ales. In passato c’era stata una tendenza a prodotti dalle acidità elevate, un po’ ostici e “asfaltanti”, ma hanno avuto successo le birre più equilibrate e piacevoli, guardando ad esempio di nuovo a prodotti belgi come le Flemish Red Ale, dove l’acetico è ben bilanciato dalla componente maltata».
Difficile invece trovare in Italia gli shrub: sciroppi analcolici a base di frutta (fresca o in succo), zucchero e aceto, più eventuali erbe o spezie, si possono bere così come sono o diluiti in acqua (o altra bevanda) calda o fredda e sono molto usati nella mixology internazionale – soprattutto negli States – per dare tocchi di freschezza e nuance di sapore a molti drink.
Da noi sono praticamente introvabili: ci aveva provato l’Acetaia Giusti, che aveva lanciato gli shrub per la mixology, ma li ha di recente rivisti nella nuova linea degli Agrodolci, in cui aceti “dolci” (come quello di mela o di uva Trebbiano) e mosto d’uva sono insaporiti da frutta e altri ingredienti come mela, lampone, zenzero, melograno o fico, sottolineandone la versatilità tanto in cucina quanto nel mixing glass.
In Oriente poi i drinking vinegar (aceti diluiti e addolciti, spesso ammorbiditi con mosti di frutta) sono una realtà, diffusa soprattutto in Corea, Taiwan e Giappone dove la storica acetaia Uchibori ha lanciato il brand di “dessert vinegar” alla frutta – in tanti gusti deliziosi, dallo yuzu alle prugne – OaksHeart, promuovendoli come bevande rinfrescanti e salutari (senza eccedere: possono danneggiare denti ed esofago, ma anche fegato e reni).
Acetyco/Acetyca
Eppure, anche in Italia c’è chi non demorde. Come Andrea Bezzecchi, fondatore dell’Acetaia San Giacomo con tanto di dottorato in scienze, tecnologie e biotecnologie agro-alimentari con tesi sui processi e prodotti innovativi di acetificazione. Oltre a produrre nella sua azienda-laboratorio di Novellara tanti tipi di aceti crudi – non diluiti in acqua e dalla lunghissima acetificazione in statico – e di Balsamico ottenuto esclusivamente da mosto cotto, senza aggiunta di aceto, Bezzecchi è tra i fondatori degli Amici Acidi: gruppo di produttori (di aceto ma anche di vino, distillati e miele, creato con Mario Pojer, Joško e Mitja Sirk, Andreas Widman e il compianto Andrea Paternoster di Mieli Thun) impegnato a diffondere la cultura su questo prodotto, chiarendone caratteristiche e differenze qualitative e promuovendone un uso consapevole e virtuoso, a casa e al ristorante.
Ma adesso, Bezzecchi è andato anche oltre. Insieme a Beatrice Guzzi (cuoca di talento che dopo le esperienze in Belgio e gli studi a Pollenzo lavora attualmente come consulente di ricerca e sviluppo per un’importante azienda) e a Paolo Tucci, milanese che dal mondo della finanza si è spostato verso quello del vino, sempre dopo il corso a Pollenzo, nel 2021 hanno creato Acetyca: startup innovativa e accademia – il percorso didattico è articolato in tre step, dalla natura al piatto, per aiutare soprattutto i cuochi a prendere consapevolezza su funzioni e potenzialità dell’acido – con duplice sede a Milano e Novellara, presso Tucci Atelier Gastronomico e l’Acetaia San Giacomo, si ripromette di «approfondire, esplorare ed indagare, dal punto divista scientifico e culturale, il gusto acetico o agro-sapido».
Che, come nota Bezzecchi, è da sempre presente nelle abitudini alimentari umane ma è visto con un po’ di diffidenza: «Come dimostra anche la ricerca scientifica sulla fisiologia del gusto, è un “gusto soglia” perché c’è una componente richiesta a livello fisiologico per l’interazione con altri sapori, che sia però al di sotto della soglia di percezione: in gran parte, l’acido non lo distingui come gusto a sé ma esalta gli altri, può persino sostituire il sale. Oltre quella soglia un piatto diventa palesemente acido, e non a tutti piace».
Eppure, prosegue, il gusto agro è molto più interessante e sfaccettato dell’umami, il famoso “quinto gusto” esaltato dalla cultura orientale ma anche dalla scuola culinaria nordica, che lui conosce bene essendo anche analista sensoriale di Parmigiano Reggiano: «Oggi sei uno sfigato se non ti fai il tuo garum! Ma se guardiamo all’antica Roma c’era anche l’oxi garum, fatto con aceti fermentati o agresto da uva acerba. Con la sua tendenza al grasso e al dolce l’umami è una bomba di sapore, dà grande soddisfazione immediata al palato ma poca leggerezza, ed è a rischio monotonia».
Non accade invece con le acidità, soprattutto grazie alle componenti volatili, e dunque agli aromi, creati dai diversi tipi di fermentazione. «Bisogna infatti parlare di acidità al plurale: esistono almeno una decina di acidi organici diversi, solo per citare i più diffusi, che sono frutto di fermentazioni differenti e danno sensazioni diverse, aromatiche e gustative, a parità di pH: citrico, tartarico, acetico e così via». E questo vale tanto nel piatto quanto nel bicchiere.
Così, da Acetyca è nato anche Acetyco, drink analcolico a base di due aceti – il balsamico di mela, da succo cotto, che dà la componente dolce, e quello crudo da uva – cui sono stati aggiunti una leggera dose di zucchero di canna, il profumo del mandarino e la nota amarognola finale data dal chinino.
Il risultato è una bevanda sodata fresca ed equilibrata, per nulla aggressiva ma molto interessante e dal gusto complesso e lungo, dove l’acidità è piacevole e non troppo mascherata (come accade invece spesso nel kombucha, che parte da tè zuccherato e fermenta per opera dello Scoby, o madre, che Bezzechi invece rifugge per i suoi aceti). Può essere bevuta da sola – come aperitivo o anche a tutto pasto – o usata come base per altre bevande, alcoliche o meno: da provare, ad esempio, con whisky e gin.
Feral, “alte” fermentazioni da ingredienti umili
Parte invece dalla fermentazione lattica – che dà risultati più amabili e rotondi, pur con pH basso – la produzione di Feral Drinks: giovane start up e fermenteria con sede tra le montagne trentine, vede la collaborazione di un gruppo di birrai, biologi, forager e sommelier per creare una nuova categoria di bevande analcoliche dal profilo multidimensionale, dove erbe, fiori, spezie e legni in infusione o macerazione aggiungono complessità e aromi alle basi fermentate di ingredienti umili e dimenticati – come le barbabietole rosse, con aggiunta di mirtilli, e le rape bianche – cui dare nuova dignità, con un messaggio “inclusivo”. La fermentazione in questo caso è opera di tre ceppi specifici di batteri da loro identificati che non producono alcol ma solo acido lattico, inoculati nelle basi.
Tutto nasce dall’idea di Maddalena Zanoni, trentina laureata alla Bocconi e con esperienze all’estero in aziende multinazionali, e appassionatasi al mondo del vino e della botanica: «Dopo tanti anni fuori sono rientrata in Trentino alla ricerca dell’identità perduta, ho trascorso due mesi in una malga in montagna. Ma è all’estero che mi sono resa conto di come la cucina, molto influenzata dai “nordics”, avesse un grande focus sulle fermentazioni ma anche sugli abbinamenti non alcolici».
Una tendenza che in Italia è ancora limitata ma sta iniziando a catturare l’attenzione di una certa fascia di ristorazione: dallo chef Alfio Ghezzi da Eala al Sensorium di Milano. Sono nati così quattro drink dalle caratteristiche diverse: il N.1, a base bianca con luppolo e pepe di Sichuan, ha note agrumate e fresche, perfetto come aperitivo estivo o con piatti delicati. Diametralmente opposto l’intenso N.2, in cui alla base bianca si aggiungono le note decise di zenzero, pepe garofanato e bacche di ginepro: ideale anche come fine pasto, in alternativa all’amaro, è il preferito dello chef Pietro Leemann che lo abbina alle pietanze speziate del ristorante Joia. Il N.3 e il N.4 hanno una comune base rossa con nuance e utilizzi diversi: note tanniche e aromi di pepe, cuoio e legno tostato, più timo e pepe nero, avvicinano il primo a un vino rosso importante da abbinare a primi robusti, carni e formaggi; mentre note più delicate di lavanda e ginepro rendono il secondo versatile come un Pinot Nero.
Comune denominatore: creare bevande che esplorano il gusto e nobilitano ingredienti poveri, proponendo alternative interessanti e sane al bere alcolico.