Cento per cento italiano, con pochi zuccheri, ricco di proteine ma senza lattosio. Lavorato a mano? Meglio ancora. Non è un indovinello, ma un semplice esempio delle infinite combinazioni di variabili che affollano le etichette dei prodotti alimentari. Etichette capaci di instaurare un vero e proprio dialogo con un consumatore sempre più attento e selettivo, che prima di riempire il carrello – fisico o virtuale – esamina scrupolosamente il packaging di ogni articolo alla ricerca di risposte, consigli e rassicurazioni. La conseguenza diretta di questa sovrabbondanza informativa è la possibilità di trovare una correlazione tra le informazioni riportate in etichetta e il consumo reale, per monitorare trend noti ma anche emergenti insieme ai gruppi demografici che li determinano.
Dal 2016, con cadenza semestrale, l’Osservatorio Immagino GS1 Italy fa proprio questo: incrocia i dati presenti sui prodotti (loghi, tabelle nutrizionali, slogan, certificazioni) con quelli di vendita e di consumo forniti da NielsenIQ, aiutando così gli operatori di settore e le istituzioni a comprendere le scelte degli italiani.
La tredicesima edizione raccoglie e analizza i dati del 2022 ed è stata realizzata su una base di circa 133.000 prodotti di largo consumo, che hanno sviluppato oltre quaranta miliardi di euro di sell-out e coprono più dell’ottanta per cento del venduto nei supermercati e negli ipermercati italiani. E ci mostra come l’inflazione sia riuscita a piegare l’ormai radicata difesa del “cibo di qualità” messa in atto dagli italiani: anche gli articoli di fascia alta hanno subito una significativa contrazione a livello di volumi, fenomeno ancora più accentuato per le categorie destinate ai segmenti di popolazione economicamente più deboli, che non potendo orientarsi verso opzioni ancora più convenienti si trovano nella condizione obbligata di limitare gli acquisti.
Pur confermando la sua leadership tra tutti i fenomeni rilevati dall’Osservatorio Immagino – con una quota del 28,5 per cento sul giro d’affari del food & beverage, che ammonta a oltre dieci miliardi di euro – il tanto attenzionato trend di “italianità” inizia a mostrare qualche segno di cedimento. Nonostante il fatturato sia salito del 6 per cento per effetto degli aumenti di prezzo, tutte le indicazioni monitorate sono arretrate in quantità. Sul podio continua a svettare la bandiera italiana – che da sola copre un giro di affari che supera i sei miliardi di euro – seguita dal “100% italiano”, che tra tutti i claim di italianità ha registrato la maggiore crescita in valore rispetto all’anno precedente.
Analizzando invece le prestazioni delle regioni italiane in etichetta, la medaglia d’oro viene assegnata ancora una volta al Trentino-Alto Adige, e sarebbe interessante capire quale delle due province autonome pesa di più nel cuore e nelle tasche degli italiani (ma abbiamo qualche sospetto); la Sicilia mantiene saldamente la seconda posizione, mentre il Piemonte sorpassa l’Emilia-Romagna. La crescita nel fatturato si oppone al calo dei volumi di vendita, con qualche eccezione degna di nota: il Molise si distingue come best performer del 2022 e grazie alla pasta di semola e alla passata di pomodoro costituisce una delle tre sole regioni che hanno ottenuto un incremento anche in volume, insieme a Umbria e Sardegna.
Nel paniere dei fenomeni monitorati dall’Osservatorio Immagino in ambito F&B rientrano anche i “free from” e i “rich-in”. Il primo comparto include i prodotti che riportano in etichetta o sul packaging uno dei claim riferiti alla minore presenza o all’assoluta assenza di un nutriente, un ingrediente o un additivo (per esempio “pochi zuccheri”, “senza olio di palma”, “senza conservanti”), e nel 2022 conferma la sua rilevanza con il ventiquattro per cento del giro d’affari totale.
Anche in questo caso le buone performance in valore sono determinate dal sovrapprezzo perché il bilancio a volume resta negativo, sebbene alcuni indicatori siano riusciti ad aumentare le quantità vendute: lo zucchero continua a terrorizzare gli italiani, sempre più concentrati nella ricerca di slogan rassicuranti sulle confezioni di cereali, biscotti, merendine, torte da credenza e succhi di frutta (e magari abbassano la guardia quando si tratta di salumi, sughi pronti e zuppe in scatola).
Il “senza conservanti” continua a dominare la classifica in valore, seguito dal “senza olio di palma”, altro incubo degli ultimi anni di cui molti avranno dimenticato l’origine ma che continua a difendere un incasso che supera abbondantemente il miliardo di euro.
Nel mondo dei “rich-in” troviamo invece gli alimenti “ricchi di” proteine, fibre, vitamine e altri micronutrienti: un assortimento di oltre diecimila articoli per un giro d’affari complessivo superiore a quattro miliardi di euro, cresciuto dell’otto per cento rispetto al 2021. Le proteine consolidano la loro leadership, come risulta evidente dalla presenza massiva e spesso ridondante del claim in ogni categoria alimentare: latte e biscotti, pane, pasta e gallette, zuppe di legumi, gelati e dessert monoporzione. Questi ultimi in particolare hanno trainato i volumi di vendita nonostante l’impennata dei prezzi.
Positivo il bilancio anche per alcuni sali minerali – magnesio, potassio e zinco – che tengono testa all’inflazione per mezzo di frutta secca, integratori e prodotti per sportivi (che anche i sedicenti tali amano acquistare per sentirsi parte della comunità). Affini agli aspiranti atleti troviamo gli aspiranti intolleranti, che hanno contribuito all’aumento delle vendite in valore dei cibi senza glutine e senza lattosio; i secondi hanno registrato un’espansione anche in volume per merito dei popolarissimi dessert che affollano i banchi frigo accanto agli yogurt.
E se i “prodotti senza” fanno gola, ancora più appetibili risultano quelli che contengono “ingredienti benefici”, anche se la crescita del fatturato va ascritta quasi esclusivamente agli aumenti di prezzo, che hanno spinto i consumatori a ridurre le quantità acquistate. Nella gamma dei “tradizionali” va segnalata la performance del caramello – che riesce a mantenere i volumi a dispetto dei rincari – anche se cacao e nocciola continuano a troneggiare in valore.
Tra i “superfruit” spicca il risultato dell’avocado: questo segmento piccolo ma vivace ha registrato una crescita in valore che sfiora il trenta per cento e che supera il tredici per cento in volumi. Nel gruppo “farine e supercereali” continua a primeggiare l’avena; probabilmente l’esplosione del culturismo (già evidente dal boom delle proteine) ha giocato la sua parte.
E mentre la stella dei “superfood” sembra essersi offuscata – il giro di affari è calato più dell’otto per cento, ancora peggiori le perdite in volume – nuove tendenze iniziano ad affermarsi. E così le ormai agonizzanti bacche di goji hanno lasciato il posto alla tahina – indispensabile per un hummus di ceci ben riuscito – e al burro di arachidi, che spopola sul porridge e sul pane tostato anche nelle bakery di ultima generazione.
Sebbene i principali indagati dell’operazione investigativa intrapresa tra le corsie del supermercato siano gli ingredienti contenuti nei prodotti, non vanno dimenticati gli indicatori che fanno riferimento al metodo di lavorazione per sottolineare l’artigianalità di una determinata fase produttiva o l’uso di tecniche che migliorano gli aspetti sensoriali o nutrizionali. Domina la scena il claim “trafilato”, riferito alla trafilatura al bronzo della pasta, che riunisce il maggior numero di articoli e genera il più alto giro d’affari.
Grande attenzione anche per l’artigianalità, che traina il fatturato ma non i volumi di vendita. Bilancio tutto positivo per il “non fritto”, in espansione grazie ai fuoripasto guilty-free. Quanto alla texture, il morso “croccante” continua a sedurre gli italiani, che tuttavia – complice un’età media relativamente alta – sono sempre più attratti dai cibi “morbidi”, “teneri”, “soffici”.
A prescindere da particolari trend, in crisi o in ascesa, tutte le dinamiche raccontate da quest’ultima edizione dell’Osservatorio Immagino GS1 mostrano chiaramente come gli italiani stiano facendo fronte all’aumento dei prezzi incrementando le visite al supermercato e al contempo contenendo il numero di pezzi acquistati per singolo scontrino, così da razionalizzare i consumi riducendo il più possibile gli sprechi. I risparmiatori continuano a essere concentrati nel Sud Italia e nelle fasce di età più giovani o con reddito sotto la media, con un picco sulle famiglie giovani e in crescita, sempre meno libere di vivere il momento della spesa come atto politico.