L’ossessione per la memoriaIl talento narrativo di Silvia Avallone e la traccia indelebile del male

“Cuore nero” (Rizzoli) dimostra ancora una volta l’abilità unica della scrittrice nello scandagliare l’emotività dei suoi personaggi, avvicinando il lettore ai loro tormenti mentre li avvolge in una costruzione sempre più audace

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Teatro della storia narrata da Silvia Avallone nel suo nuovo romanzo “Cuore nero” (Rizzoli, pp. 368) è un minuscolo borgo per lo più disabitato che sorge solitario fra le gole strette della montagna, Sassaia. È qui che un giorno, a turbare le abitudini sedentarie dei pochi abitanti, appare Emilia, giovane, capelli crespi e rossi, una spolverata di efelidi sulla faccia e occhi belli e tristi. Dalla casa di fronte, Bruno, voce narrante della storia, osserva quella presenza con un misto di diffidenza e paura, quasi che l’arrivo della sconosciuta fosse il presagio di una sventura. Il talento di Silvia Avallone non è riducibile all’abilità con cui s’insinua negli abissi emotivi dei suoi personaggi, facendo erompere dalle loro azioni o reazioni, da ciò che dicono oppure omettono, il nocciolo di dolore che nascondono dentro sé, si esprime invece con una disinvoltura sempre maggiore anche in questo: la costruzione narrativa.

Dall’arrivo di Emilia in paese, ogni informazione che l’autrice deciderà di dispensare ai suoi lettori produrrà un doppio movimento: in avanti, a tessere un presente di ricompensa per il dolore scontato fino a lì, e indietro, per ricostruire la matrice dell’inestricabile solitudine dei due, Bruno ed Emilia, che ora tenta d’annullarsi nella vicinanza, nelle carezze e nei baci. La tensione è un elemento imprescindibile della tenuta, a conferma delle doti indiscusse di narratrice, e non solo di romanziera, di cui Avallone fa mostra nei suoi romanzi. Tutto accelera in un vortice e quando è sul punto di manifestare ciò che non è stato ancora svelato, perde un battito, riconsegnandoci a un’andatura cauta, meno intricata, verticale, in cui poter prendere coscienza di ciò che si agita nei personaggi. «Si rese conto che a realizzarli, i desideri, li tradisci anche».

Emilia ha pensato che un posto così lontano dal mondo potesse proteggerla dalle bruciature che il mondo le ha a lungo procurato. È un incontro fra simili che si riconoscono, quello fra Bruno ed Emilia, la scintilla di un’umanità che non ha bisogno di parole per accendersi. Quando lui ha il coraggio di ricambiare lo sguardo di lei, osserva quegli occhi “privi di luce, come due stelle morte” e già sa, intuisce, pur non conoscendo per nulla la storia di Emilia. Il gioco sta nell’aver messo uno di fronte all’altra, e nell’aver provocato uno scontro più che un incontro, due trentenni ugualmente istruiti sul dolore, anche se da posizioni opposte: Bruno il male lo ha subito, mentre Emilia lo ha compiuto. Poco importa, sembra sottintendere Avallone, perché l’umanità che trapela dal buio di entrambi azzera le colpe e, nell’incedere della storia, avvicina emotivamente il lettore al tormento e alla tenerezza di chi ha smesso di credere nel futuro.

Fin dal suo d’esordio, “Acciaio” (Rizzoli, 2010), con cui Avallone si aggiudica il Premio Campiello opera prima e il Premio Flaiano, classificandosi seconda al Premio Strega, l’interesse dell’autrice si è concentrato su quella fase di vita, l’adolescenza, in cui s’avanza in bilico su una linea d’ombra, in cui ci si proietta nel futuro con tutta l’ostinazione o il candore tipici di quell’età, e i dubbi, e le paure, e da cui s’intraprende un percorso di metamorfosi che porta inesorabile a diventare adulti. Al centro di “Acciaio” c’era la storia di due ragazze che crescono nella realtà operaia di Piombino, in “Marina Bellezza” (2013) i giovani protagonisti destinati a vivere l’amore, il primo, e il più struggente, quello che tutto consuma perché nulla conosce, avevano a che fare con le incomprensioni delle relative famiglie e con la difficoltà di sentirsi precocemente maturi, davanti a scelte obbligate e in fuga dalla solitudine. Con “Da dove la vita è perfetta” (2017), l’autrice fa di nuovo deflagrare l’energia scomposta e prepotente dell’età in cui tutto accade, può accadere e accadrà, anche se in modo diverso rispetto a quanto preventivato. E ancora il suo quarto romanzo: “Un’amicizia” (2020), dove ritroviamo il fuoco d’un passato che detta legge al presente, e in cui la protagonista, ormai un’adulta schiva e solitaria, torna nei luoghi e al tempo in cui ogni cosa ha preso forma.

Eccola la misura di una poetica che coltiva l’ossessione letteraria per la memoria, ricomponendo di volta in volta il mosaico del qui e ora a partire dai frammenti di ricordi sedimentati nella coscienza dei personaggi. «La vita era una trama fragile, sospesa su un abisso, e lei rischiava di continuo di scivolarci dentro».

Il male fatto o subito è una traccia indelebile, impossibile da accantonare per ripensare sé stessi, una volta accaduto il male non scompare, mai del tutto almeno, eppure il futuro è una strada che segue leggi proprie e che a volte stupisce per l’imprevedibilità. Capita, in fondo, che siano sufficienti brevi istanti per tornare a provare una scheggia di fiducia: «Però adesso eravamo vivi. E io ero innamorato di lei senza sapere niente. E se avessi continuato a non sapere, la vita sarebbe stata un luogo perfetto. Come quella notte». Quando il tentativo di un’assoluzione prende il posto della condanna, a intravedersi è la luce fin lì oscurata nelle incrinature dei carnefici o nelle crepe delle vittime, più simili fra di loro di quanto non si potrebbe supporre, uguali nello stato d’umanità e nelle debolezze che questo fatalmente comporta.

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