«Hai visto “American Fiction”?» l’ho detto l’ultima volta, l’ultima di mille volte, lunedì mattina, a un professore di storia che mi raccontava che, nell’insegnare il Novecento, succede che nessuno faccia un plissé quando si racconta il terrorismo o le guerre mondiali, ma quando arrivi ai diritti delle donne e racconti Franca Viola si alza una studentessa offesa: lei non ha premesso un trigger warning, sono turbata.
Il che, se di mestiere fai il docente universitario (o anche solo se hai figli), è un problema: la libertà di dare per scontato che i ventenni siano imbecilli è privilegio di noi felici pochi che non ce li dobbiamo far piacere per forza, ma se per genetica o per mestiere devi trovare in loro qualcosa di buono, che le dici alla signorina turbata?
Avrei suggerito «warning, la vita è tutta un trigger», da dire ogni mattina, a ogni inizio di lezione e di giornata. Invece ho chiesto di “American Fiction”, per quella scena iniziale in cui la studentessa bianca coi capelli blu dice che la parola sulla lavagna è sbagliata. Sulla lavagna il professore nero ha scritto il titolo d’un racconto di Flannery O’Connor, “The Artificial Nigger”.
La studentessa non l’ha letto o comunque non ha niente da dirne, ma ritiene offensivo dover vedere quella parola. Il professore dice che quello è un corso sulla letteratura del sud degli Stati Uniti, capiterà che incontrino pagine sgradevoli, ma sono tutti adulti e possono farcela. (Un’altra disgrazia, se hai figli o fai l’insegnante, è che ti tocca fingere di considerare i ventenni adulti).
La ragazza insiste, il professore nero dice che se la parola nigger può affrontarla lui è ragionevole aspettarsi che ce la faccia anche lei, la studentessa abbandona l’aula. Ovviamente la facoltà non è contenta del professore.
Da quando ho visto “American Fiction”, che finalmente ieri Prime ha distribuito anche in Italia così quelli con cui parlo smetteranno di guardarmi come mucche guardano treno mentre racconto della ferocia con cui irride l’identitarismo ma soprattutto l’editoria, mi sembra che tutto intorno a me sia “American Fiction”.
Domenica Aaron Bushnell, americano bianco ma soprattutto venticinquenne, non essendo stato (inspiegabilmente) invitato a Sanremo, ha deciso di protestare contro il genocidio dandosi fuoco fuori dall’ambasciata israeliana a Washington. È morto, e la storia è piena di dettagli che dicono quanto sia folle la contemporaneità: dal fatto che il rogo sia andato in diretta su Twitch (qualunque cosa sia) all’assurda convinzione che servano urgentemente psicologi per sostenere e comprendere le ragazze offese da Franca Viola o da Flannery O’Connor, e non psichiatri per far desistere uno che ritiene che darsi fuoco sia un programma politico.
Ma il momento in cui la storia diventa “American Fiction” è quello in cui le persone cui il rogo sembra un gesto di valore e il ragazzo defunto non un malato di mente ma un eroe, in cui quelle persone lo salutano sui social con una frase fatta: «rest in power», variazione con piglio di «rest in peace». All’improvviso, Twitter si riempie di indignati.
Rest in power è una frase che si usa per i neri, basta con quest’appropriazione culturale, è ora di finirla con voi bianchi che ci arrubbate tutto, basta col privilegio bianco di darsi fuoco. (Ogni volta che leggo uno di questi deliri sono sollevatissima che, delle estati in cui noialtre bambine bianche ci facevamo fare le treccine con le perline, non restino foto).
Poiché neanche morire è ormai esente dal ridicolo, sono arrivati quelli delle community notes, gli utenti di Twitter (o come si chiama ora) che aggiungono dati fattuali che smentiscano informazioni errate (non capisco come mai nessuno abbia ancora scritto un grande romanzo su quest’epoca in cui si sentono tutti disvelatori di verità nascoste, o come dicono gli analfabeti «debunker»).
I quali precisano che in realtà «rest in power» fu usato per la prima volta per un filippino, quindi forse siamo al triplo carpiato, al privilegio nero rispetto a quelli delle isole minori.
Non credo nella razza, dice l’io narrante di Percival Everett in “Erasure”, il romanzo del 2001 da cui è tratto “American Fiction” (mi pare che la traduzione italiana sia fuori catalogo, se qualche editore magari vuole rimediare, grazie). E il problema (l’aveva capito Martin Luther King, meno i militanti social di questo secolo ridicolo) sono quelli che ci credono.
Certo che ci sono persone, dice, che proveranno a spararmi a impiccarmi a fregarmi a fermarmi: è perché credono nella razza. All’inizio di “American Fiction”, l’agente che deve vendere il nuovo romanzo del protagonista gli dice che gli editori vogliono un libro più nero. Hanno già un libro nero, trasecola lui: io sono nero, ed è il mio libro.
Poiché mi vedo scritta su tutti i muri, mi sono tornati in mente gli anni in cui c’era sempre qualche direttrice, nei femminili in cui scrivevo, che si raccomandava di dare un taglio femminile all’articolo sul tal gruppo musicale o sul tal romanzo. A Sanremo c’era la disgraziata inviata d’un settimanale che in conferenza stampa prendeva la parola e diceva ad Amadeus che, siccome loro erano un femminile, gli avrebbe fatto una domanda sulla moglie.
Se, dopo decenni a incassare pubblicità di stilisti e cosmetici, chi fa i femminili non ha ancora capito che per farlo non serve ripetere ogni due righe in-quanto-donna, che le donne magari un articolo sui Nirvana lo leggono anche se non parla della madre di Cobain, come può Monk – protagonista di “Erasure” e di “American Fiction” – pretendere che gli editori accettino che un autore nero scriva un romanzo in cui non c’è la violenza dei ghetti afroamericani? Borghesia nera? Dove siamo, in una puntata di “I Robinson”?
E, se il secolo le dice che le ragazze impegnate e sensibili hanno bisogno di parole con gli asterischi e avvisi prima degli argomenti sensibili, e gli argomenti sensibili riguardano il colore della pelle o le questioni sessuali e null’altro, siamo sicuri che la studentessa universitaria possa permettersi l’anticonformismo di dire che una fuitina non la impressiona più d’una guerra?