Vorrei cominciare questo articolo dicendo che Adriano Sofri aveva vent’anni, l’età alla quale si è stupidi davvero, ma le fonti della storia divergono sull’anno di quella primavera: il 1963 o il 1964? Comunque: ne aveva venti o ventuno, di sicuro era abbastanza giovane da essere scemo.
A tenere una conferenza alla Normale c’era Palmiro Togliatti, settantenne o settantunenne. Togliatti stava raccontando d’un generale americano che si era meravigliato che il Pci non volesse fare la rivoluzione.
Dice la leggenda – una leggenda che non riesce neanche a stabilire univocamente l’anno dei fatti, ma alla quale voglio credere comunque – che dalla platea si levasse la voce di Sofri che stronzeggiava più o meno così: «Ci voleva l’ingenuità d’un americano per pensare che un partito che si chiama comunista volesse il comunismo».
Dice la leggenda – una leggenda che mi fa credere in un tempo in cui gli adulti fossero meno imbecilli di ora, e meno terrorizzati che i ventenni non li considerassero simpatici compagni di giochi, e meno smaniosi di far di tutto perché di loro non si dicesse «boomer» – che Togliatti rispondesse più o meno: «Devi ancora crescere: provaci tu, a fare la rivoluzione».
È stata quella, sessant’anni fa, l’ultima volta in cui un adulto non ha avuto paura di ricordare a un giovane cretino il suo essere giovane e quindi cretino? Forse no, forse in mezzo tra quando i settantenni avevano dei ventenni la giusta considerazione – quella di sbarbati che devono imparare a stare al loro posto – e oggi, che noialtri vegliardi viviamo nel terrore di essere disprezzati dai ventenni, forse in mezzo c’è stato un declino graduale.
Un paio di settimane fa m’hanno raccontato un episodio successo quella mattina. Un direttore d’orchestra inglese che viene intervistato nel corso d’un festival. Nel temibile momento in cui si apre alle domande del pubblico, alza la mano una ventenne. Che chiede senza traccia d’ironia se non sia il caso di porre rimedio al nome discriminatorio che ha la materia di studio e di lavoro del tizio cui sta rivolgendo la domanda. «Classical music», spiega tutta seria la rappresentante della generazione «nun sape mai nu cazz’», contiene il concetto di «class».
A quel punto ci dividiamo, noi adulti, in due gruppi. Gli infelici molti che hanno figli, e più di tutto temono che questi figli li considerino relitti del Novecento superati dalla modernità, e quindi diranno certo, piccina, hai ragione, cambiamo nome a questa musica classista. Certo, piccina, non dirò più «gli abbonati alla stagione lirica», il maschile sovresteso è un sopruso, d’ora in poi dirò «le persone abbonate», per distinguerle dalle piante abbonate.
E i felici pochi cui viene in mente “Tár”, un film che vi consiglio di correre a recuperare se ancora non l’avete visto, invece di perdere tempo coi miei articoli (è su Sky). Per gli infelici molti che non hanno visto Cate Blanchett nel ruolo di Lydia Tár, direttore d’orchestra alle prese coi primi ventenni non abituati a veder liquidare la loro scemenza, copio qui un paio di righe d’un articolo strepitoso quanto il film, scritto da Zadie Smith sulla New York Review of Books.
«Ora Lydia Tár si trova a parlare a una generazione diversa. La generazione che dice cose come: non è che questo Bach mi convinca granché. Tali affermazioni hanno lo scopo calcolato di ridurre in stato d’isteria i Luminari Culturali di mezz’età». Ce l’hanno? È un calcolo fatto per épater? (Il saggio di Zadie Smith è meraviglioso, e io non sono d’accordo con quasi niente di quel che sostiene).
Non sarà che noialtri Luminari Culturali (chiedo scusa a Lydia Tár per essermi messa sul suo piano, dal quale mi scaccerebbe con una schicchera e uno sguardo schifato) diventiamo isterici non perché al ragazzino non piaccia Bach, ma per le motivazioni che dà? «In quanto persona pangender e di colore, direi che la vita misogina di Bach mi rende impossibile prendere sul serio la sua musica».
Zadie Smith ne fa una questione di meriti artistici, di vita distinta dall’opera, di dovere dei Luminari Culturali d’insegnare ai giovani imbecilli a valutare le cose. «Può un accordo in La minore essere misogino?», si chiede, passando poi a dire che la differenza, tra noi e loro (tra loro che hanno vent’anni oggi, e noi che li avevamo trent’anni fa), è che noi innanzitutto ci chiedevamo se l’opera fosse interessante, non se Chaucer fosse misogino o Virginia Woolf razzista.
È una delle molte interpretazioni con cui non sono d’accordo. Il punto è che «in quanto persona pangender di colore» è una premessa imbecille, qualunque sia la sua conclusione, fosse pure una critica alla musica di Sandy Marton o di Cristina D’Avena.
Il punto è che è difficile avere vent’anni e non fare ragionamenti imbecilli, ma dovrebbe essere facile per gli adulti ridere delle analisi ridicole. E invece il direttore d’orchestra inglese dice alla ragazzina per cui la musica classica è classista che la sua è un’osservazione importante, perché non vuole che poi quella scriva su qualche social che lui è un boomer.
Oggigiorno c’è, dice Zadie Smith, un divario temporale enorme tra chi ha vent’anni e chi ne ha cinquanta: sembra che la distanza non sia mai stata maggiore. Da quando mi sono data della Luminare Culturale mi sono montata la testa, e quindi: non sono d’accordo neanche su questo.
Non siamo mai stati così posticciamente simili: mettiamo le stesse magliettecollescritte, ascoltiamo le stesse canzoni, ci interessiamo agli stessi personaggi pubblici dei ventenni. Vedo le mie coetanee lanciare mutande a Blanco o a Timothée Chalamet e mi chiedo che effetto mi avrebbe fatto se le amiche di mia madre avessero mostrato friccichi ormonali per Miguel Bosé o John Taylor. Per fortuna questo trauma mi è stato risparmiato.
In questi giorni ho assistito al bisticcio su Instagram tra una donna e una ragazzina sul tema del sexting. È andata così. La donna ha detto, in una conferenza, che bisogna farsi furbe e, per esempio, mandare foto in cui non si veda la faccia, così il giorno che il tuo ex vuole farti un dispetto mandando in giro le tue foto nuda nessuno può essere certo che quelle tette siano le tue.
L’ha detto partendo dal principio che mandare le tue foto nuda in giro sia un inviolabile diritto, che già mi pare abbastanza lunare. L’ha detto perché, se hai figlie ventenni o se di lavoro vendi qualunque cosa alle ventenni, non puoi permetterti di essere intelligente: puoi solo dar loro ragione. (Chi te lo vieta, d’essere intelligente comunque, si chiederanno i miei piccoli lettori; me lo chiedo anch’io, temo che ce lo vietiamo da sole, contando i cuoricini di chi asseconda il mercato al ribasso).
La ventiequalcosenne che ha deciso di polemizzare con questo blandissimo invito a tutelarsi era indignata non perché bisognerebbe, semmai, insegnare alla sua generazione che, se pure uno pensa di fare lo stronzo mandando in giro le tue foto nuda, non ti sta in realtà affatto sputtanando: siamo tutte nude, sotto i vestiti, che sorpresa sarebbe?
Non perché sia una ventenne particolarmente sveglia, e quindi in grado di capire che «impara a badare a te stessa» sia l’unico insegnamento sensato, persino se ammetterlo ti costringe a dar ragione a Bellicapelli Giambruno, e l’idea che qualcuno dica alle ragazzine che hanno il dovere di non far nulla per tutelarsi, ché dev’essere il mondo a rispettarle e mica loro a fare attenzione, è un’idea non so se più imbarazzante o più criminale.
La ventiequalcosenne si è messa lì e, col cervello che non ha completato lo sviluppo d’una ventiequalcosenne, ha spiegato che «l’esperienza sessuale on line è un diritto, non un vezzo» (sta tra l’acqua potabile e l’istruzione), e che «la nostra salute sessuale digitale è un diritto, non un capriccio» (la salute sessuale digitale è quando la candida ti viene se non funziona il wifi, immagino).
Nel mio mondo ideale l’adulta, a quel punto, avrebbe detto ma sai che c’è, io torno a far l’adulta, ché tanto il consenso delle ventenni non è un obiettivo sensato. Avrebbe detto cara mia, se uno volantina le foto nuda che gli hai mandato da fidanzati è un criminale, ma tu che ti fidanzi con uno di cui non c’è da fidarsi sveglissima non sei.
E invece siamo nel mondo post-togliattiano in cui l’adulta ha passato giorni a cercare di spiegare, a giustificarsi, a dire che certo, è una violenza che le donne debbano tutelarsi e gli uomini no, e la ventenne ha ragionissima a ritenere tra i diritti fondamentali del genere umano il fotografarsi le tette.
E invece è finita come al solito, con pochissimi Luminari Culturali e moltissimo traffico per le piattaforme dedite all’appiattimento del pensiero in comode slide. Provateci voi, a fare la rivoluzione nel secolo in cui siamo tutti determinati a non crescere.