Giovani e mitomaniGhali, i giustizieri dell’Internet e il dramma social delle scemenze scritte da adolescente

Gli archeologi dell’età dello sviluppo stanno recuperando i vecchi tweet del cantante italotunisino rinfacciandogli alcune frasi scritte quando era ventenne. Beati noi che siamo stati stupidi quando non c’erano i cellulari con la telecamera

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La gente che è adulta oggi ed è stata giovane nel Novecento non si riconosce guardandosi la pelle cascante e le carni frolle, non si riconosce da certe comuni rievocazioni di estati adolescenti col sacchetto dei gettoni a chiamare la fidanzatina in un lido lontano, non si riconosce dalle vhs impolverate in uno scaffale alto della libreria.

La gente che ha avuto la pazzeschissima fortuna d’essere giovane prima del mondo come è oggi riconosce i propri simili perché, ogni volta che a qualche famoso che era giovane all’inizio di internet, e quindi ha lasciato in giro tracce di sé a cervello non ancora formato, ogni volta che a uno di questi viene rinfacciato qualcosa, noialtri ci guardiamo e sospiriamo in coro: che fortuna.

Che fortuna pazzesca essere stati scemi (essere stati giovani, è uguale) quando non c’erano i telefoni con la telecamera, quando le foto andavano sviluppate e stampate e i rullini costavano, quando l’unica che leggeva le tue stronzate era tua madre che ti guardava il diario di nascosto, quando dei giovani non fregava niente a nessuno e quindi potevi fare le tue cazzate senza che l’opinione pubblica se ne interessasse.

Che fortuna pazzesca che delle nostre carni sode e dei nostri cervelli non formati non resti niente di pubblico: non foto nude, non filmini discutibili caricati su YouTube, non lettere d’amore e disperazione esposte al pubblico, non sentimenti, non corpi, non opinioni politiche, non abbigliamenti senza gusto, non terrificanti spontaneità, non istruzione senza discernimento, non citazionismi a vanvera, non certezze infondate, non irredimibili giovinezze.

Che fortuna essere stati già troppo vecchi per MySpace e aver tenuto sempre private le impostazioni di Facebook, che fortuna non essere quella minoranza di nostre coetanee che hanno capito che con Instagram si potevano fare i soldi e non esser finite costrette a non poter cenare senza farsi le foto, che fortuna non dover documentare la nostra vita senile in diretta e che fortuna poter dimenticare la nostra giovinezza se non per qualche foto delle vacanze che riemerge a volte da scatole dimenticate.

Ghali ha trent’anni. Il che significa che, nel mio codice comportamentale, ha il permesso d’essere scemo per altri cinque. La maggiore età non conta niente: tra i venti e i trentacinque anni, l’essere umano è al picco della sua stupidità, ignaro di tutto e convinto di saperla lunghissima.

Quando Ghali usa «genocidio» con l’evidente convinzione che sia sinonimo di «guerra» non è solo un figlio del suo tempo, in cui «radical chic» vuol dire «professoressa di lettere col mutuo», un tempo in cui gli slittamenti semantici sono terremoti che causano voragini d’incomprensione, in cui non esiste più una lingua condivisa perché i giovani sono come Genny Savastano del quale il padre diceva «nun sape mai nu cazz’», e gli adulti non si azzardano a usare correttamente le parole per il terrore di venir definiti «boomer» (che non è più uno nato negli anni nel boom, ma uno nato in qualunque altra epoca che si ostini a mangiare con le posate).

Quando Ghali usa parole a casaccio è un trentenne, perdipiù un trentenne che di mestiere sta sul palco. Parecchio tempo fa intervistai un cantante poco più che quarantenne, al quale chiesi se l’allora sessantaequalcosenne Mick Jagger non fosse ridicolo, ancora a sculettare sul palco. (Era una domanda giovane e scema, com’ero io all’epoca).

Quello mi guardò con la condiscendenza con cui io ora guardo quelli che da piccoli stavano su YouTube, e mi disse: ma questo mestiere se hai il senso del ridicolo mica lo fai. Aveva ragione, naturalmente. Nessuna persona adulta, o colta, o dotata di senso del pudore, nessuna persona che abbia le qualità che ci sembrano indispensabili negli esseri umani può tollerare di fare per molto tempo l’attore, il cantante, il pagliaccio da palcoscenico.

Passare la propria vita sul palcoscenico richiede una sospensione del senso del ridicolo che temo somigli a quella che si pratica naturalmente quando la corteccia prefrontale non ti si è ancora finita di formare; solo che tu, che hai deciso che da grande farai la star, quel senso del ridicolo lo sospendi intenzionalmente, non per lacuna fisiologica.

Quindi Ghali, che ha trent’anni e di mestiere fa il rapper, ieri viene aspramente criticato dai severi giudici dell’internet perché, ohibò, nel 2012 – cioè: quando di anni ne aveva diciotto – ha risposto «Quando vuoi zio» a un tizio che gli aveva scritto «se vengo a Milano andiamo a figa insieme?». Il giustiziere che ne è andato a recuperare i tweet dice che lui, lui giustiziere, non scriveva «’ste cose a vent’anni né mai». E io ci credo, e sono certa che non sia dovuto al fatto che il giustiziere ha la mia età e a vent’anni al massimo avrebbe potuto scriverle nel diario di Snoopy; né c’entra che Ghali a venticinque stesse con Mariacarla Boscono e insomma bisogna, essendo uomini medi, essere fessi o mitomani per mettersi in competizione.

Il 9 maggio 2013, dodici giorni prima di compiere vent’anni, Ghali twitta: «La barista del mio bar di fiducia ha un culo devastante e quando prendo il caffè si gira almeno 3 volte». A nessuno della mia generazione questa frase fa granché impressione (a meno che non si tratti di persona molto determinata a usare i vent’anni di qualcuno contro quel qualcuno).

A quella di Ghali probabilmente sì, perché è una generazione che ha costruito un mondo scivoloso, in cui dire che una sconosciuta ha un bel culo è molto peggio che non sapere cosa significhi «genocidio». Agli sponsor di Ghali probabilmente sì, perché una cosa che è successa tra i suoi venti e i suoi trent’anni è che è diventato una star, e la fama porta con sé delle responsabilità. («Prima dei soldi c’è amore, prima dei soldi hai fame», twittava Ghali ventunenne e già con semi di saggezza a proposito di quel che contava).

Naturalmente i commenti sulle «troie», che se stanno in un tweet valgono processo morale ma se stanno in forma di «bitch» in una canzone sono cantabilissime dai dodicenni figli dei moralizzatori dell’internet, fanno più presa; ma, nell’andare a guardare i tweet del Ghali ventunenne, quello che mi ha fatto più impressione è: «Questi qui della moda mi mettono a disagio».

È il dicembre 2015. Tre anni e mezzo dopo, su Vogue America compare la didascalia «Ghali in Gucci and personal jewelry». La foto illustrava un articolo in cui si raccontava del Dior con cui era vestito a Venezia, del Margiela con cui era comparso su Instagram, della stylist che lo seguiva da tre anni.

Persino io, che fino a questo Sanremo non avevo mai sentito una canzone di Ghali ma so quel che serve sapere della cultura popolare, lo conosco da anni come uno dei cantanti italiani più legati alla moda. È un’incoerenza da rinfacciargli? Non sarò certo io a farlo: metti che poi un domani mi rinfaccino quello zaino di Naj Oleari delle medie, i jeans con disegnata la stella brigatista, lo zainetto con disegnata la celtica.

Se vi sembra tentennamento ideologico grave questo, è perché ignorate quanto fosse seria la mia incapacità di schierarmi e decidere il mio posizionamento politico: volevo limonare più urgentemente il bassista degli Spandau o quello dei Duran? Mai stata in grado di rispondere.

Meno male che della me di allora non restano tracce pubbliche. Essere ricchi e famosi e di successo ha pochi svantaggi ma enormi; il principale guaio è che non puoi andare a prendere il cappuccino in pigiama senza che ti chiedano una foto, ma competitivo secondo si piazza il dramma d’essere privato del diritto al revisionismo autobiografico dagli archeologi dell’età dello sviluppo.

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