Buio in sala. Se, come è vero, cibo e cinema sono due solidissimi elementi narrativi che permettono di raccontare storie, l’incontro dei due può aprire a scenari insondati. Il cibo trasposto sul grande schermo amplifica la sua potenza comunicativa: può essere metafora di drammi personali, cartina al tornasole dei grandi cambiamenti culturali, comprimario silente eppure eloquente dell’evoluzione della società.
“The Menu” è uno tra gli esempi più recenti e radicali: un film quasi di meta-cucina, in cui la sovraesposizione grottesca del cibo è sufficiente a sé stessa per trasformarsi in critica al ruolo che negli ultimi quindici anni esso ha assunto nei media.
Allo stesso modo, spaziando tra tecniche e generi diversi, ci sono film che vengono subito in mente il cui legame con la cucina appare indissolubile: “La grande abbuffata”, (i vari) Willy Wonka o “Ratatouille”. Così come sono innumerevoli i titoli in cui un piatto o un alimento sono al centro di scene divenute iconiche. Gli spaghetti di “Lilli e il vagabondo”, i ricchi buffet a base di macaron e pasticcini di “Marie Antoinette”, i quarti di bue dell’allenamento in “Rocky”, le escargot di “Pretty Woman”: non c’è storia o ambientazione storica che possa dirsi estranea. E tra i film recentemente usciti in sala, tre hanno molto da dire su chi siamo, chi eravamo e chi saremmo stati (se il mondo fosse stato tutto rosa!).
Non si può ripercorrere il 2023 al cinema, infatti, senza citare “Barbie”, evento di proporzioni colossali che ha elevato all’ennesima potenza il concetto di pop. La bambola Mattel, con le fattezze dell’attrice Margot Robbie, vive la sua vita modulata con grande ironia sui giochi dell’infanzia, in cui fondamentale è il divertimento, meno la plausibilità degli eventi e le leggi della fisica. Barbie non scende le scale: dal secondo piano della sua casa adorabile, arriva direttamente a bordo piscina o nella sua cabriolet. E, allo stesso modo, anche il cibo, non è fonte di sostentamento o di piacere, ma puro decoro, come il latte che lo spettatore (non) vede nella sequenza iniziale.
Nonostante il cibo compaia in pochissime inquadrature, l’uscita del film di Greta Gerwig ha portato la mania del rosa in ogni dove, investendo ovviamente anche l’ambito cibo. Perché se nel film è ridotto ai minimi termini – laddove non addirittura invisibile, in queste estreme conseguenze della fantasia d’infanzia – è al di qua del grande schermo che la Barbie-core ha trovato ampio spazio nella ristorazione.
Sono state avviate numerose partnership commerciali con brand di gelati, yogurt e pasta, nonché con Burger King, che in Brasile ha venduto un menu “Barbie-zzato”, la cui dominante era ovviamente il colore rosa (del packaging e delle salse). Ma non ci si è limitati a questo: si sono sprecati gli omaggi apocrifi con hummus, gnocchi, risotti, croissant, panini, cocktail, cheesecake (e l’elenco potrebbe continuare ancora per molto!) indirizzati alla bambola.
Come una specie di Re Mida en rose, il pubblico ha voluto trasformare il cibo esasperandone l’effetto wow ed ergendolo a puro feticcio. Non un vitello d’oro, quello che l’uscita di Barbie si è trascinata negli ultimi mesi, ma un caramelloso idolo dalle tonalità marshmallow.
Altro film che offre moltissimi spunti è “C’è ancora domani”. L’esordio alla regia di Paola Cortellesi ha conquistato pubblico e critica per la dovizia di particolari e l’affidabilità storica e linguistica nel rappresentare l’Italia alla vigilia del referendum del 1946. E lo spaccato sociale che il film fornisce è quello di una frangia particolarmente povera e arretrata, in cui la tavola non è solo rappresentazione della condizione economica, ma trasposizione dei rapporti di potere in seno alla famiglia. La subalternità della protagonista alla violenza verbale e fisica del marito passa anche attraverso la gestualità in cucina, i tempi e le modalità con cui il pasto viene consumato.
Sono numerose le sequenze di “C’è ancora domani” legate al cibo, come documento sociale e come perno narrativo, elemento per leggere un’emancipazione femminile ancora ben lontana dal suo compimento. Nel film di Cortellesi il cibo, se non è tutto, è certamente moltissimo: è dramma, vettore che avvicina altri personaggi o porta la scena in un altro spazio. Ma è anche ironia, puntino comico e liberatorio: come la tavoletta di cioccolato regalata da un soldato americano e condivisa dalla protagonista con il suo amore di gioventù. Il sentimento, mai veramente sopito da parte di entrambi, si mescola con la sorpresa e il gusto per un alimento così inconsueto, in una scena in cui i due si guardano estasiati, sorridendo con i denti sporchi di cioccolato.
Un film che, probabilmente non ambisce a raccontare una società e una vicenda umana attraverso il cibo, ma in cui il cibo racconta molto è “Perfect Days” di Wim Wenders. Il regista porta lo spettatore a Tōkyō alla scoperta della quotidianità (quasi) sempre uguale di un uomo umile e dimesso. Un lavoratore indefesso, sobrio e discreto, che durante la pausa pranzo consuma un sandwich seduto su una panchina mentre osserva l’armonia della natura in un ritaglio verde rubato alla città. Un’esperienza che si allarga e diventa anche dettagliato spaccato sociale, addentrandosi in una working class giapponese fatta di momenti di socialità serali (sempre dopo aver adempiuto al rito quotidiano del lavoro che non è semplice dovere, ma è dedizione e legittimazione di sé).
Il cibo accompagna molti di questi momenti, ma è sempre poco, sempre consumato in modo composto e più per dovere che per piacere. Non affiora minimamente quella goduriosa attitudine patinata che popola i social, i programmi televisivi e i ricchi scatti fotografici rappresentando la normalità di uno storytelling che ha trasformato il cibo in food. In un film in cui la progressione narrativa ed emotiva è massimamente affidata al commento sonoro, il cibo viene spinto con gentilezza al suo ruolo originario: sostentamento e socialità, anche se è quella sofferta di una metropoli del terzo millennio.
Uno sguardo e un sorriso, tra un morso e l’altro, alla vicina di panchina o al vicino di sgabello, un’espressione di tenerezza alla proprietaria della izakaya, la taverna che il protagonista frequenta occasionalmente. E, nonostante a separare “Perfect Days” e “C’è ancora domani” ci siano quasi ottant’anni, migliaia di chilometri e due culture tra loro molto distanti, anche in questo caso il cioccolato gioca un ruolo emblematico, aprendo uno squarcio emotivo sul passato del protagonista.
Menzione a parte merita “The Bear”, la serie tv costruita attorno al cibo, ora filo conduttore e metafora delle condizioni sociali, ora leva che sollecita corde proustiane mai davvero conciliate. Una (quasi) saga familiare che si dipana inseguendo il sogno dell’apertura di un ristorante. In “The Bear” il cibo è impegno e desiderio, soddisfazione e illusorietà: dallo street food alla cucina gourmet, senza gerarchie di sorta.
In questa serie i fallimenti della vita si affiancano agli spiragli di miglioramento e il cibo è fulcro per entrambi; ciascun personaggio affronta il suo arco narrativo con e nel cibo. Se la corsa all’apertura del locale passa attraverso frustrazione e sollievo, un morso dato a un panino o la cucchiaiata di un dessert realizzati con impegno e dedizione sono il sacrificio ripagato che porta a un climax narrativo.
La piccola, grande rivoluzione di “The Bear” sta proprio in questo: nell’accettare la cucina come materia non salvifica, ma vivificatrice, preparando il pubblico a una continua dialettica tra discesa agli inferi e ascesa all’empireo del gusto.
E ci si potrebbe dilungare con esempi emblematici passando attraverso pranzi luculliani e digiuni, colazioni dolci e salate, pasti poverissimi, tazze di tè immaginarie e «…quello che ha preso la signorina». Perché l’incontro tra cinema e cibo è probabilmente uno tra i più felici, capace di appagare palato ed emotività, lasciando sempre uno spazietto per il dolce o una suggestione per una nuova analisi critica.