«Noi commettiamo sempre lo stesso errore, perché viviamo nel presente e non riusciamo a guardare al futuro», parola di Paul Auster. Lo scrittore americano ne parla a proposito della crisi della democrazia e della rabbia della gente, disperata e confusa. E aggiunge: «In questi momenti i leader autoritari appaiono molto eccitanti». Ha ragione. Una tesi che condivido e che, anni fa, sviluppai durante un dibattito al Senato. Qual è il punto? La libertà fa paura. La libertà di cui godiamo ti obbliga a prendere decisioni, le decisioni pretendono la responsabilità ma esercitare il diritto di scegliere significa sporcarsi le mani, ragionare, sedersi e discutere, confrontarsi, modificare le proprie opinioni. Uno sforzo che talvolta decidiamo di assegnare a uomini (o a donne) soli al comando. Facciano loro, gli eletti, tuttalpiù, se non funzionano, li sostituiamo seguendo il medesimo schema, ora questo ora quella, in una girandola che logora la democrazia così come l’abbiamo conosciuta.
Ancor prima di affrontare questioni delicatissime quali premierato e autonomia regionale rafforzata e differenziata, il Parlamento dovrebbe discutere di sé stesso, di cosa è diventato e di cosa invece dovrebbe essere in questa lunga stagione destinata a evolvere ancora, a rosicchiare spazi di potestà decisionale per affidarli a vertici sempre più affilati dove la decretazione non è l’eccezione dovuta all’urgenza ma la regola aulica, dove nei comuni il sindaco non ha quasi più ancoraggio nella politica, dove l’Europa è un’ameba seppur circondata dalle fiamme del mondo.
Quando la democrazia parlamentare divenne una pratica diffusa, furono scritte costituzioni che regolavano i poteri e stabilivano la strada da battere perché non vi fossero invasioni di campo e le procedure riti condivisi. E oggi? Oggi, con la società del secolo scorso in via di estinzione e l’intelligenza artificiale alle porte, oggi che le strutture istituzionali segnalano uno stato diffuso di crisi e l’astensione dal voto, da anni, si allarga, perché non discutere di ciò che saremo? Le nazioni si fondano sul comune sentire (Renan) e su istituzioni coralmente condivise.
Le istituzioni possono subire cambiamenti, anzi: devono adattarsi per rappresentare al meglio un tempo nascente. Ma non possono subire strappi se non c’è un disegno sovraordinato, organico, consapevole, condiviso. Uno strappo ogni tanto, affidato alla pratica o, peggio, all’improvvisazione, è destinato a ferire in profondità un corpo già abbastanza malato. Servirebbe la politica ma, se lo dici, ti prendono per matto.