Il peso delle paroleSi fa presto a dire genocidio, ma spesso si sbaglia

Il neologismo nasce dalla combinazione del greco ghénos (razza, stirpe, famiglia) con un suffissoide latino, -cidium (da caedere, tagliare, uccidere), e si presta a diverse interpretazioni. Generalmente si lega «all’intenzione di distruggere», ma se Israele intendesse davvero distruggere il popolo palestinese avrebbe usato altri metodi e altre armi

AP/Lapresse

Si fa presto a dire genocidio. Una parola sinistra, riecheggiata rumorosamente, in questi ultimi tempi, dai palchi dei festival canori ai dibattiti televisivi alle piazze vocianti. Spesso a sproposito.

Genocidio è una parola piuttosto recente, coniata quando di genocidi era già costellata la storia. A introdurla, nel saggio “Axis Rule in Occupied Europe” stampato a Washington nel 1944, è stato un giurista ebreo polacco, Raphael Lemkin, che già si era occupato del massacro di oltre un milione di armeni nell’Impero ottomano nel corso della Prima guerra mondiale e che durante la Seconda patì quello di tre milioni di concittadini correligionari, in cui perse quarantanove dei suoi famigliari. Lemkin costruì il neologismo combinando un termine greco, ghénos (razza, stirpe, famiglia), con un suffissoide latino, -cidium (da caedere, tagliare, uccidere). Il contenuto preciso da dare alla nuova parola è stato però, ed è tuttora, estremamente dibattuto.

La “Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio”, adottata all’unanimità dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1948, all’articolo 2 stabilisce che “per genocidio si intende ciascuno degli atti seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso: a) uccisione di membri del gruppo; b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale dei membri del gruppo; c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale; d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo; e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo a un altro”. Tutto chiaro?

Non proprio. Perché, a partire da queste fattispecie, resta aperta una serie di questioni, riconducibili alle modalità della distruzione (diretta o anche indiretta, come nel caso dell’Holodomor, la carestia causata dalle politiche agrarie staliniane, che all’inizio degli anni Trenta costò la vita a milioni di ucraini) e al suo oggetto (soltanto gruppi etnici o nazionali, o anche gruppi sociali o politici o religiosi, omosessuali, ritardati mentali?). Di conseguenza il concetto di genocidio è andato incontro a una considerevole estensione, ricomprendendo diverse tipologie, non sempre nettamente distinguibili e a loro volta oggetto di accese discussioni tra gli studiosi (per un approfondimento della questione si può consultare la voce genocidio nell’Enciclopedia delle scienze sociali Treccani).

Ci sono i genocidi “punitivi”, compiuti per vendetta, e quelli legati alle guerre di conquista: sono due casi per lo più confinati nel passato, e la cui natura genocidaria da molti è contestata, perché tutte le operazioni belliche comportano inevitabilmente stragi e atrocità che non per questo si devono qualificare come genocidi. Ci sono poi i genocidi “utilitaristici” o predatori, volti allo sfruttamento delle risorse economiche o territoriali altrui, quali si sono verificati in seguito alle spedizioni coloniali europee in Africa e nelle Americhe: anche qui, tuttavia, l’applicabilità del concetto di genocidio non è così scontata, perché, al di là di alcuni casi di sterminio organizzato, la gran parte delle vittime fu causata indirettamente dalla diffusione delle malattie portate dai colonizzatori, per le quali gli indigeni non possedevano anticorpi. Un genocidio incidentale, o almeno preterintenzionale, può definirsi senz’altro genocidio? Alcuni studiosi prendono (lessicalmente) le distanze trasformando il sostantivo in aggettivo, e parlano di “genocidal massacres”, massacri di tipo genocidario.

Non sembrano invece porre problemi di classificazione gli eccidi perpetrati da certi gruppi etnici per consolidare il proprio potere in uno Stato multietnico: genocidi “monopolistici”, come quello andato in scena da aprile a luglio del 1994 nel Ruanda diviso tra Tutsi e Hutu, e costato la vita a una cifra imprecisata tra mezzo milione e un milione di persone.

Ma la forma di genocidio più tipica del Novecento, e più tragicamente ricorrente, è quella ideologica, consumata in nome di valori imposti con la violenza per modificare radicalmente gli assetti sociali di uno Stato: per esempio quelli avvenuti durante il Terrore staliniano ai danni di diversi gruppi nazionali e sociali (si ipotizza un totale di 20 milioni di vittime), o quelli compiuti tra il 1975 e il 1979 dai khmer rossi nella Cambogia di Pol Pot (da 1,5 a 3 milioni di morti). Oltre al genocidio più emblematico del Secolo breve, quello passato alla storia con il nome di Shoah, dettagliatamente pianificato da Hitler per rendere la nazione ariana judenfrei e sistematicamente attuato nel corso della Seconda guerra mondiale, che inghiottì sei milioni di ebrei d’Europa. Ossia quello stesso popolo, oggi organizzato in un proprio Stato nella Terra promessa, che è ora accusato di commettere un identico crimine nei confronti dei palestinesi. Ma è appropriato parlare di genocidio?

Dipende. Le variabili, come abbiamo visto, sono molteplici e intrecciate. Un punto, però, va sottolineato: il già citato articolo 2 della “UN Genocide Convention”, nel definire che cosa è il genocidio, menziona esplicitamente «l’intenzione di distruggere». Tutti i diversi tipi di distruzione che elenca di seguito sono genocidi quando esiste questa intenzione. Nella Germania nazista la volontà di sterminio era manifesta fin dal principio e sancita nella “soluzione finale” messa a punto alla conferenza di Wannsee del 20 gennaio 1942. Ma in genere tale volontà è sottaciuta o dissimulata, se non recisamente smentita dai responsabili, perché l’eliminazione indiscriminata di un intero ghénos è giustamente avvertita come il culmine dell’escalation criminale.

Le autorità turche, dagli anni dell’Impero ottomano collassante fino a oggi, hanno sempre negato il genocidio degli armeni, ridimensionato nei numeri e derubricato a repressione di una rivolta contro la Sublime Porta; l’argomento è tabù, tanto che chi osa parlarne, come è accaduto allo scrittore premio Nobel Orhan Pamuk, incorre nel reato di “offesa allo Stato”. Anche l’Holodomor è stato pervicacemente negato dall’Unione Sovietica, e lo è tuttora nella Russia putiniana, con l’argomentazione che si sarebbe trattato di una carestia dovuta a cause naturali, tutt’al più trascurate dai dirigenti dell’epoca, in ogni caso non qualche cosa di premeditato – mentre è storicamente accertato che fu causata dalle massicce requisizioni dei raccolti per costringere i contadini alla collettivizzazione delle terre, e nello stesso tempo piegare il nazionalismo locale.

Insomma negare l’intenzione genocidaria non vuol dire che questa intenzione non sussista, più o meno esplicita. È questo il caso di Israele nei confronti di Gaza?

La risposta non è univoca, ma quella maggiormente accreditata riflette più le reazioni emotive che una lucida analisi dei fatti. Se Israele intendesse davvero distruggere il ghénos palestinese, o almeno quello insediato nella Striscia, avrebbe avuto a disposizione metodi più rapidi di quelli dispiegati da oltre quattro mesi in una tragica mattanza quotidiana che ha il risultato di alienargli, oltre a molta opinione pubblica, anche buona parte dell’establishment mondiale. Se pure lo volesse, non può e sa di non potere: quindi se ne astiene. Indubbiamente il rischio paventato potrebbe concretizzarsi, anche al di là delle iniziali intenzioni, se il conflitto dovesse protrarsi a lungo. Ma per fortuna non siamo ancora a questo punto. L’intenzione dichiarata delle operazioni militari seguite ai massacri del 7 ottobre è quella di distruggere la rete terroristica di Hamas, nell’ambito di una più vasta ritorsione che ha prevedibilmente (inaccettabilmente) coinvolto la popolazione civile, e che si potrebbe semmai ascrivere a quel genere di genocidi “punitivi” la cui reale natura genocidaria, come abbiamo visto, è generalmente esclusa dagli studiosi.

La terribile realtà non cambia: i trentamila morti palestinesi sono sempre trentamila morti, la strage dei bambini, il disastro umanitario restano, e ovviamente è del tutto legittimo condannare gli eccessi e invocarne la cessazione. Ma parlare di genocidio serve soltanto a confondere i termini della questione. È un modo per intensificare in senso peggiorativo la portata semantica delle parole, per aggiungere un di più di esecrabilità, il non plus ultra dell’orrore a quanto sta accadendo: una scelta lessicale ideologicamente condizionata, non descrittiva ma militante, che sortisce l’effetto di alimentare le divisioni ostacolando le possibili azioni concretamente tese a risolvere il conflitto.

Se Ghali, al festival di Sanremo, avesse detto «stop al massacro», probabilmente ci sarebbero state meno polemiche. E forse avrebbe messo tutti d’accordo se avesse aggiunto non una rituale di condanna per le stragi del 7 ottobre, come qualcuno avrebbe preteso senza alcuna utilità (perché ormai non si tratta più di condannare quel che è stato ma di risolvere quel che ancora è in corso), bensì un appello molto semplice, che riguarda ciò che si può e si deve fare ora, subito: libertà per gli ostaggi.

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