In italiano sarebbe la «piccola torre», gli olandesi la chiamano Torentje: si tratta di un piccolo edificio ottagonale situato a L’Aia che a partire dal 1982 è diventato l’ufficio de facto del primo ministro dei Paesi Bassi. In oltre quarant’anni sono stati vari e sorprendenti gli avvicendamenti alla Torentje, come estenuanti e difficoltose sono state talvolta le trattative per arrivare alla formazione di un governo, anche in virtù del sistema elettorale del Paese. Nel 2021 dopo le elezioni ci sono voluti quasi trecento giorni per trovare un accordo: oggi siamo appena a ottanta giorni, da quando a novembre il leader populista del Partito per la Libertà (Pvv), Geert Wilders, ha trionfato alle urne.
All’indomani del voto avevamo scritto su Linkiesta che nonostante l’ampio successo per Wilders sarebbe iniziata la parte più difficile: così effettivamente è stato, dato che dopo tre mesi di colloqui il nuovo governo olandese a trazione populista fatica a prendere forma. Nelle ultime ore, Pieter Omtzigt, capo del partito Nuovo Contratto Sociale (Nsc), ha fatto addirittura un passo indietro, abbandonando le trattative. Con una lettera pubblicata martedì sul sito web del partito, Omtzigt ha lasciato aperta solo la possibilità di sostenere un governo di minoranza dall’esterno.
Wilders aveva infatti disegnato una coalizione di destra che oltre al movimento di Omtzigt avrebbe incluso anche il Partito Popolare per la Libertà e la Democrazia (Vvd), precedentemente guidato dal primo ministro uscente Mark Rutte e ora da Dilan Yesilgoz, e il Movimento Agricoltori-Cittadini. Nonostante l’assertività delle dichiarazioni post-voto («Vogliamo governare e… governeremo», aveva detto Wilders), e la presunta disponibilità a smussare alcuni tratti della sua inquietante agenda, i colloqui con i possibili alleati non sono decollati.
Secondo Politico, le prime crepe si sarebbero aperte a gennaio, quando alcuni legislatori del Vvd hanno votato a favore di una legge che conferisce al governo il potere di obbligare i comuni olandesi ad accogliere i richiedenti asilo, agendo così contro le indicazioni dei quattro leader della futura coalizione.
Negli ultimi giorni sarebbero precipitate le cose proprio con Omtzigt, le cui perplessità sul programma di Wilders avrebbero riguardato soprattutto un deficit di bilancio che, anche secondo gli analisti, potrebbe andare fuori scala con la lista della spesa proposta dal leader populista. Il Pvv ha promesso il trasporto pubblico gratuito sugli autobus, l’innalzamento della spesa per sanità e welfare e la riduzione delle tasse: un progetto a dir poco utopico, senza avere alcun piano concreto su come finanziare il tutto. La scorsa settimana il presidente della Banca centrale olandese Klaas Knot ha dichiarato che qualsiasi nuova coalizione dovrebbe attuare tagli per diciassette miliardi di euro per limitare il deficit del Paese al due per cento del prodotto interno lordo.
Ci sono poi le perplessità e le incompatibilità di lunga data, su cui pesano i capisaldi del populismo di Wilders. Se da un lato i vari partiti di centrodestra potrebbero accettare una stretta sull’immigrazione, dall’altro sarebbe comunque difficile collaborare sugli altri punti delineati da Wilders in campagna elettorale, ostili al sostegno militare all’Ucraina, alla cooperazione con l’Europa e alle politiche ambientaliste. Persino sull’immigrazione non è semplice trovare una quadra: Wilders vorrebbe un blocco totale degli arrivi, una soluzione poco realistica dato che i Paesi Bassi fanno parte dell’area Schengen, priva di frontiere.
Bloomberg ha scritto che in Europa «una cosa è vincere le elezioni, un’altra è formare un governo»: una massima che fa sicuramente al caso di Wilders. Anni di opposizione hanno forgiato gran parte delle esperienze sovraniste europee e molto spesso gli stessi leader hanno dovuto fare i conti con il passaggio da agitatori di popolo a decision makers governativi. Un po’ più a nord di Amsterdam, nell’ultimo decennio la politica svedese è stata stravolta dai Democratici di Svezia, un partito anti-immigrazione che ha frammentato il panorama elettorale bipolare. Dopo essersi affermati in modo abbastanza convincente alle ultime elezioni, però, i Democratici sono finiti ai margini del governo di minoranza guidato da Ulf Kristersson.
Anche escludendo i parallelismi con Stoccolma, le cose per Wilders non sembrano mettersi per il meglio: Sarah de Lange, docente di politica all’Università di Amsterdam, al Financial Times ha detto che i Paesi Bassi stanno attraversando «una situazione di stallo». A questo punto le carte da giocare per i populisti non sembrano molte: Wilders ha già agitato lo spettro del ritorno alle urne, più come arma negoziale che come scenario concreto. Se si dovesse tornare al voto, infatti, stando ai sondaggi il Pvv potrebbe uscire ancora più rafforzato: le ultime rilevazioni indicano un sostegno in crescita per Wilders, che potrebbe consolidare i suoi consensi raccogliendo quasi un terzo dei centocinquanta seggi in parlamento.
Per gli avversari la situazione è lose-lose: come ha sottolineato il sondaggista indipendente Maurice de Hond, se gli altri partiti evitassero una coalizione con Wilders, questo potrebbe solo portare più voti al leader sovranista. L’alternativa però è cedere alle richieste del Pvv e formare il governo con un uomo che in passato ha avuto come stelle polari Viktor Orbán e la Brexit.
Una terza via però ci sarebbe: qualora Wilders non riuscisse a formare un esecutivo, prima di andare alle elezioni l’alleanza laburista-verde guidata dall’ex commissario europeo Frans Timmermans potrebbe essere chiamata a cercare un’intesa di governo. Questa coalizione potrebbe essere ancora più ingombrante ma tentar non nuoce. Il negoziatore principale di Wilders, Ronald Plasterk, entro lunedì dovrebbe presentare al Parlamento una relazione sui progressi dei colloqui: la sensazione, però, è che si vada per le lunghe.