Fuori dalla vecchia manifattura del sigaro Toscano, un ex convento di suore al centro di Lucca, ogni giorno si radunavano lunghe file di ragazzi in attesa del fine turno delle sigaraie. Quelle operaie col posto fisso “di Stato” erano tra le più corteggiate della città. Le poche ad avere un lavoro “sicuro” in grado di mantenere intere famiglie. Dal 2004 lo stabilimento del sigaro Toscano si è spostato poco fuori le mura lucchesi, a Mugnano, ma le sigaraie sono rimaste il fiore all’occhiello dell’azienda. E nonostante la produzione sia ormai quasi del tutto automatizzata, le ultime quaranta sigaraie di Lucca sono ancora le uniche in Europa a fabbricare a mano i “toscanelli” più ricercati sul mercato. Esportati dalla Germania all’Asia, con un fatturato di centoventicinque milioni di euro per duecentorentacinque milioni di sigari venduti, di cui il trenta per cento all’estero. Con una penetrazione forte anche negli Stati Uniti da quando, nel 2015, la manifattura ha acquisito la Avanti Cigar, marchio creato in Pennsylvania da migranti italiani che avevano riprodotto la versione a stelle e strisce del toscanello.
Nel 2000, la fabbrica è passata prima all’Ente tabacchi italiani, Eti, privatizzato nel 2003 con la vendita alla British American Tobacco, che nel 2006 ha ceduto a sua volta il ramo d’azienda del Toscano a un gruppo di imprenditori italiani, con la maggioranza nelle mani dei bolognesi Maccaferri. Sette anni dopo la Seci della famiglia Maccaferri fallisce e lo scorso dicembre l’azienda è passata al cento per cento ai soci di minoranza. O meglio, a quattro nomi di peso dell’imprenditoria italiana: Luca di Montezemolo (presidente), Aurelio Regina (vicepresidente), Piero Gnudi e Francesco Valli, riuniti nella società Leaf BidCo che finora ad allora deteneva il 49,99 per cento e che ha acquistato la quota residua dal fondo americano Apollo Delos, il quale a sua volta aveva rilevato la maggioranza delle manifatture dal Tribunale di Bologna.
Come nascono i sigari
Camminare lungo le linee di produzione del sigaro Toscano equivale un po’ ad attraversare duecento anni di storia d’Italia e dell’economia italiana. Con una grande differenza rispetto al panorama della manifattura nazionale: oggi, come più di duecento anni fa, gran parte della forza lavoro qui è al femminile. Dei trecentosettanta operai – tra Lucca (duecentocinquanta) e Cava de’ Tirreni (centoventi), in provincia di Salerno, dove si fanno i sigari aromatizzati – il sessanta per cento sono donne.
Il toscanello come lo conosciamo oggi pare sia nato per un errore fortunato. Nel 1815, nella Manifattura tabacchi di Firenze gestita dal Granducato di Toscana, una partita di tabacco Kentucky lasciata essiccare al sole estivo viene bagnata dalla pioggia. Non volendo rinunciare a quella merce preziosa, decidono di farla asciugare per produrre sigari a basso costo destinati al popolo. La sorpresa, però, è che quei sigari vanno a ruba. Il tabacco bagnato e il caldo di agosto avevano innescato il processo di fermentazione che ancora oggi dà al sigaro Toscano quell’aroma che ha prodotto club di assaggiatori e generazioni di appassionati. A eccezione di Clint Eastwood, «costretto» da Sergio Leone a fumare solo il sigaro di Lucca nelle riprese dei suoi western.
«Oggi, come allora, seguiamo esattamente lo stesso processo di oltre duecento anni fa», dice Stefano Mariotti, amministratore delegato della società. «Continuiamo a usare solo tabacco Kentucky prodotto in Italia, lo bagniamo e lo lasciamo fermentare senza aggiungere niente. Se il tabacco non fermenta, noi stiamo qui ad aspettare».
All’ingresso della fabbrica si trovano le postazioni di Guardia di Finanza e Agenzia delle dogane e dei monopoli. Dopo i tornelli, comincia la «cinta fiscale» e tutti i prodotti all’interno sono in «regime di sospensione di accisa». Tutto quello che esce dallo stabilimento deve essere sottoposto alle accise statali – che nel caso dei sigari equivalgono al 23,5 per cento sul prezzo. Il monopolio di Stato resta il controllore, nonostante la privatizzazione. Ecco perché il magazzino con i sigari già confezionati, ma non ancora tassati, la sera e la mattina deve essere sempre chiuso e aperto da un agente delle Fiamme Gialle. E chiunque abbia necessità di entrare nel fine settimana, quando la fabbrica è chiusa, deve richiedere la presenza di un finanziere.
Il percorso che porta dalla pianta di tabacco all’accensione del sigaro sottoposto alle accise è lungo e lento. Anche perché la stagionatura del sigaro, una volta confezionato, può richiedere anche più di dodici mesi.
La filiera comincia nei pochi campi di tabacco Kentucky rimasti in Italia. Se la coltivazione della pianta destinata alle sigarette si è ridotta al lumicino, con un calo di oltre il sessanta per cento negli ultimi vent’anni, quella delle foglie per sigari è ancora più ristretta. I fornitori del Toscano sono in tutto centottanta, ma i primi tre da soli coltivano duecento dei mille ettari totali. La maggior parte è composta da piccoli e piccolissimi coltivatori, concentrati soprattutto in Toscana (ottanta per cento), ma anche Veneto, Campania, Umbria e basso Lazio.
La coltivazione parte a maggio e a fine agosto si raccolgono le prime foglie, che poi vengono affumicate nei forni per quindici giorni. Dopodiché, le porte dei forni vengono lasciate aperte per permettere alle foglie secche di recuperare umidità, diventando morbide e pronte a essere lavorate. E da novembre inizia la consegna del prodotto nel centro di acquisto di Foiano della Chiana, in provincia di Arezzo, dove dieci agronomi della manifattura di Lucca valutano e acquistano il tabacco Kentucky. Il prezzo di acquisto va dai quattro euro fino ai diciotto-venti euro al chilo, a seconda della qualità (ci sono diciotto «gradi» di tabacco). Il tabacco più prezioso è quello della «fascia», le foglie pregiate usate per chiudere il sigaro. Poi c’è il «ripieno pesante» e il «ripieno leggero».
Nei magazzini di Lucca, il tabacco ogni giorno arriva in scatoloni di cartone da duecento chili l’uno, per oltre due tonnellate all’anno, raccolto in fasci legati con fili colorati a seconda della varietà. Arrivati gli scatoloni, le foglie vengono «stabilizzate» passando in una galleria ad aria calda e poi messe in giacenza.
I grandi capannoni stipati di scatoloni da soli valgono novanta milioni di euro. «Per noi avere scorte è fondamentale perché dipendiamo dalle annate agrarie, che variano tanto in base alle condizioni meteo», dice Stefano Mariotti. «Nel novembre del 2019 per fortuna ebbi l’idea di raddoppiare lo stock a terra. Poi è arrivato il Covid e noi avevamo sei mesi di scorte. Altri invece hanno dovuto fermarsi».
La materia prima, il tabacco Kentucky, è quella attorno a cui ruotano tutti i cinque ettari dello stabilimento. Il percorso del tabacco si divide in due. Da una parte le foglie più pregiate della «fascia» che costituiranno l’involucro del sigaro, dall’altra quelle che comporranno il ripieno fermentato.
Una volta stabilizzata, la fascia viene spedita all’estero, dallo Sri Lanka all’Indonesia, dove la foglia viene tagliata, eliminando la costola, per ricavarne la «formella» adatta a chiudere il sigaro. Fino agli anni Sessanta questo processo veniva fatto in fabbrica, poi è stato esternalizzato perché più economico. Tra andata e ritorno, le foglie stanno fuori circa due mesi. Una volta rientrate, sono congelate e conservate.
Intanto, quindici giorni prima della chiusura del sigaro, deve essere preparato il ripieno fermentato. Le balle di tabacco vengono immerse nell’acqua, proprio come accadde quel giorno d’estate nel 1815. Sgocciolata l’acqua, il tabacco viene fatto cadere in grandi contenitori chiamati «marnoni», inviati nei magazzini dove parte la fermentazione e le foglie cominciano a produrre ammoniaca. Man mano che si avanza nei reparti, l’odore comincia a farsi sempre più forte. Fino alle celle in cui il sigaro viene lasciato a maturare, dove si può entrate solo dotati di maschera con filtro per l’ammoniaca.
«Nei magazzini entrano cento chili di tabacco, dopo dodici-tredici giorni di fermentazione ne escono sessanta», spiega Mariotti. «Ogni due o tre giorni i marnoni vengono tirati fuori per controllare le specifiche chimiche del prodotto e poi rimandati dentro».
Nello stabilimento di Lucca, una delle figure chiave è quella del blender, l’agronomo che garantisce che il gusto del sigaro sia sempre uguale, al di là delle annate. «Decidiamo sulla materia prima che entra, valutiamo tutte le fasi del processo di produzione e in più ci occupiamo della realizzazione di nuovi prodotti e miscele anche in base alle sollecitazioni che ci arrivano dal marketing», dice Matteo Roscioli, uno dei due blender della fabbrica. «In ogni bagno di tabacco, inseriamo sempre foglie di diverse annate per limare le differenze tra una raccolta e l’altra».
Al termine della fermentazione del ripieno, le foglie vengono private della costola con un sistema ad aria e sminuzzate in grandezze diverse a seconda del sigaro al quale sono destinate. Dal Garibaldi all’Antico, da quello fatto a mano ai toscanelli aromatizzati, le dimensioni del ripieno di tabacco cambiano.
E a questo punto le strade del Toscano si dividono ancora una volta. I sigari chiusi a macchina sono i più numerosi. Alcuni dei macchinari presenti nello stabilimento risalgono ancora a quando la produzione era in mano allo Stato, ma quelli più moderni elettronici sono in grado di produrre fino al trenta per cento di sigari in più. In comune hanno la stessa membrana che simula l’antica chiusura a mano, oltre alla colla di mais per far stare insieme tutto. «Una macchina per le sigarette ne fa 20mila al minuto, le nostre fanno sedici sigari al minuto», dice Mariotti. «Abbiamo anche ridotto la velocità per dare ai nostri addetti il tempo necessario a controllare tutti i sigari prodotti».
Una volta tagliati, i sigari vengono distesi sui telai. Ogni tipologia di sigaro viene posizionato in maniera diversa, tra file orizzontali e verticali. Poi cominciano i controlli qualità a campione. Si misura il peso, il tiraggio e il calibro. Il sigaro Toscano resta un prodotto di lusso, nonostante si sia mantenuta nel tempo l’idea di garantire un costo non troppo alto rispetto ai competitor caraibici. Ma nessun difetto è ammesso. «Quelli chiusi male, un po’ storti o troppo panciuti vengono scartati», spiega Pasquale, agronomo a capo del controllo qualità. Ma gli scarti vengono tutti riutilizzati. Del tabacco si dice che è come il maiale: non si butta via niente.
Una volta confezionati, i sigari si mettono ancora una volta a riposo per altri quindici giorni per far fermentare anche la fascia esterna. Ma sono ancora «nudi», vanno battezzati, a seconda delle tipologie, con le fascette di colori diversi e il cellophane (quando previsto) che tutti conosciamo. Il reparto di «primo condizionamento» è dove si danno i nomi ai sigari. Il «secondo condizionamento» corrisponde invece al «letargo» del sigaro. Ovvero la maturazione, che va dai quattro ai sedici mesi per i più pregiati. L’ultima tappa è l’impacchettamento, con le etichette anti-fumo in lingue diverse a seconda del Paese a cui sono destinati.
Le sigaraie
La fabbrica di Lucca produce cinquecentomila sigari al giorno confezionati a macchina. Poi, percorrendo un «tunnel temporale», dice Mariotti, si va indietro di duecento anni e si arriva nello stanzone delle sigaraie a mano. «Le ragazze», come le chiamano tutti.
Francesca, Laura, Tiziana e compagne ripetono gli stessi gesti che hanno compiuto mamme, nonne, bisnonne e zie. Un tempo questo era un mestiere che si trasmetteva di madre in figlia. Al momento dell’assunzione, una commissione chiedeva di far vedere le mani: le dita dovevano essere corte ma non tozze, con il palmo flessibile, poi alla candidata si richiedeva di battere a macchina e se ne valutava la sveltezza. Oggi si fa una formazione minima di diciotto mesi in azienda prima di passare alla produzione.
«Sono qui da ventiquattro anni. La mia bisnonna faceva il mio stesso lavoro», dice Tiziana. Intinge le dita ricoperte dai guanti con la colla di mais, poi bagna la tavoletta di legno e stende la formella di Kentucky. Con un coltellino incide la sagoma del sigaro, facendo attenzione che le nervature dalla foglia siano parallele all’arrotolamento per evitare che la fascia si apra durante l’essiccazione. Da una sacca sulle ginocchia preleva il tabacco fermentato (il ripieno), lo pesa a mano, lo «pettina» e poi lo posa sulla formella. E con lo stesso gesto della sua bisnonna arrotola il tutto tenendo la foglia serrata. La taglierina a manico dà il taglio finale, il sigaro viene messo su un telaio con il nome della sigaraia. E poi di nuovo tutto da capo.
Se una foglia presenta qualche imperfezione, viene scartata. «Soprattutto sui sigari a mano l’attenzione è altissima perché è altissima l’aspettativa dei consumatori», dice Mariotti. «Parliamo di sigari che costano sei euro l’uno, devono essere identici per dimensioni e tiraggio».
Ogni operaia produce cinquecento sigari al giorno su turni da otto ore con dieci minuti di pausa ogni ora. Guadagnano millequattrocento euro netti più i premi. In passato, queste sigaraie erano le ultime ruote del carro, mentre gli uomini facevano i capi reparto. Pagate a cottimo, dai documenti dell’epoca si capisce che il clima era turbolento, tra i soprusi dei maschi, le condizioni di lavoro pesanti (era richiesta la produzione di milleduecento sigari) e i continui controlli in entrata e in uscita per verificare che nulla fosse portato via. A inizio Novecento, poi, parte una lunga stagione di scioperi che non solo le porta a ottenere gli stessi diritti dei colleghi uomini, ma anche il primo asilo nido aziendale italiano con una sala di allattamento. Nel 1908, da Nord a Sud, si contavano già tre nidi negli stabilimenti delle manifatture. Uno dei girelli di quegli asili ancora arreda la reception della fabbrica.
Oggi le sigaraie sono l’orgoglio dell’azienda. E le «ragazze», a loro volta, si dicono fiere rappresentanti di una tradizione di oltre due secoli, con un grande senso di appartenenza e soprattutto ancora fortemente sindacalizzate. La loro presenza è richiesta nelle fiere di mezzo mondo, dagli Stati Uniti all’Asia. E loro stesse sono quelle che insegnano il mestiere alle nuove generazioni che entrano in fabbrica. «È rimasto un mestiere femminile per tradizione. Ma anche perché le dita affusolate femminili facilitano l’arrotolamento», dice Stefano Mariotti. «Solo una volta ci provò un uomo e alla fine rinunciò».
In fondo alla stanza delle sigaraie, si vede una statua della Madonna, cimelio portato dalla ex fabbrica-convento, con un ringraziamento per aver superato la pandemia. I quaranta banchi disponibili non sono tutti occupati. Non sempre il Kentucky più pregiato è così abbondante da doverle impiegare tutte insieme nel reparto a mano. E alcune di loro, «a malincuore», per periodi limitati vengono spostate alla linea meccanizzata.
L’età media è di quaranta anni, la più anziana ne ha compiuti cinquanta da poco. La «maestra sigaraia», quella che ha insegnato il mestiere a tutte, è andata in pensione prima del Covid. Ma nel frattempo l’azienda sta inserendo nuovi giovani. «Intanto cominciano a prende confidenza con questo mondo. Anche perché non è semplice trovarli», confessa Mariotti.
Il mercato del sigaro
Oggi i sigari coprono solo l’un per cento del mercato dei prodotti a base di tabacco. Ma non è sempre stato così. La Prima guerra mondiale era anche chiamata «la guerra dei sigari», perché i toscani venivano regalati ai soldati. I militari in trincea li fumavano al contrario, con il braciere in bocca per non esser visti dai nemici. E c’è chi dice che ancora si vede qualche anziano coltivatore fumare come gli antenati che hanno fatto la guerra.
L’Italia resta il primo Paese per produzione di tabacco in Europa. Ma i numeri sono in netto declino. Da quando nel 2015 la Politica agricola comune (Pac) europea ha smesso di sostenere i coltivatori di tabacco, la produzione è calata da cento milioni di chili l’anno a meno di cinquanta. Tra prezzi di vendita bassi e costi di produzione alti, i grandi marchi delle sigarette si sono visti costretti negli anni a sostenere più volte i coltivatori alzando i prezzi di acquisto pur di garantirsi la materia prima.
Coltivare il tabacco Kentucky è più conveniente di quello per sigarette, perché viene venduto a prezzi più alti, ma è anche più difficile. Il fatturato per ettaro negli anni buoni si aggira anche tra i quindici e i sedicimila euro. «Ci sono coltivatori che in un anno guadagnano anche trentamila euro per ettaro perché hanno coltivato tutto tabacco di fascia alta», dice Mariotti. «Ma la raccolta, con la pianta che non deve essere fatta crescere in altezza, con la successiva lavorazione, sono tutte operazioni manuali che richiedono un monte ore di lavoro cinque volte in più rispetto a quello richiesto dalle sigarette. Serve più personale e non è facile trovarlo».
Dal 2016 il prezzo di acquisto del Kentucky da parte della manifattura è aumentato del quaranta per cento. Nel settembre 2022, poi, è stato rinnovato l’accordo con il ministero dell’Agricoltura che copre gli acquisti di Kentucky fino al 2025, garantendo un minimo di 2.200 tonnellate di tabacco per un valore di venti milioni di euro annui.
«Noi proviamo a incentivare la coltivazione del Kentucky aiutando i coltivatori a convertire le colture di altri tabacchi meno redditizi. Ma la difficoltà, dopo la coltivazione, è anche l’affumicatura. Servono conoscenza e competenze e sono necessari investimenti per costruire i forni. E lì interveniamo noi con supporti a fondo perduto», dice Mariotti. «L’unico limite alla nostra crescita è proprio la disponibilità di materia prima, altrimenti con la produzione potremmo andare fino al terzo turno e assumere più gente. La maggior parte dei reparti, qui, lavora su un unico turno».
Una questione europea
Le manifatture di Lucca rientrano nel comparto dell’industria alimentare e applicano il contratto collettivo di settore. Ma l’ultimo significativo contributo della Pac europea risale ormai al 2014. Qualche coltivatore di tabacco si è visto anche manifestare sui trattori che hanno occupato le strade italiane. Coldiretti ha al suo interno una sigla che rappresenta solo il settore tabacco (Ont) ed esiste anche una associazione, la Atic, che rappresenta solo i coltivatori del Kentucky.
Ma lo sguardo da Lucca è rivolto soprattutto a Bruxelles e alla futura direttiva europea sui prodotti del tabacco, che sarà in discussione nel prossimo Parlamento europeo. Dopo l’obbligo di tracciamento contro il contrabbando tramite codici da apporre in ogni fase del confezionamento imposto anche al mondo dei sigari (seppur con una proroga al 2024), ora si ipotizza non solo un aumento della tassazione, ma anche il possibile divieto dell’utilizzo degli aromi naturali. «Il che significherebbe perdere la produzione dello stabilimento di Cava de’ Tirreni e centinaia di posti di lavoro tra operai e agricoltori», dice Mariotti.
Nel 2023, nel mezzo della fiammata inflazionistica, anche il mondo dei sigari ha risentito del calo dei consumi. In Italia, dopo dieci anni di crescita, si è registrato per la prima volta una discesa del volume delle vendite del tre per cento. Il consumatore “tipo” di sigaro è disposto a spendere e il settore non è mai stato influenzato da queste dinamiche. Nel 2023, invece, è successo.
Secondo l’Eurobarometro, i consumatori di sigari hanno in media più di trent’anni e sono maschi, mentre le donne sono poche anche se in crescita. E il sigaro non è un prodotto con cui un giovane inizia a fumare. Forse è anche per questo che tutti gli eurodeputati italiani consultati finora dall’azienda, dall’estrema destra all’estrema sinistra, hanno promesso sostegno alla fabbrica di Lucca contro le limitazioni della prossima direttiva europea. Sul Toscano, persino la litigiosa politica italiana è sempre stata trasversale. Checché ne pensasse Clint Eastwood.