«Non dire mai: “Se il mondo intero è in guerra, la mia pace cosa può fare?” Tu non sei uno, sei mille. Accendi la tua fiaccola: è meglio una candela accesa che migliaia di lanterne spente»,
Rumi, poeta iraniano.
8 Marzo 1979. Era un giovedì e a Teheran stava nevicando. Dalla deposizione dell’ultimo Scià dell’Iran e dalla fine della monarchia non era passato nemmeno un mese. In Iran si respirava ancora il clima della rivoluzione. La sera del 7 marzo, Khomeini, in un discorso rivolto ai suoi discepoli rivoluzionari, aveva parlato dell’obbligo per le donne di indossare l’hijab al lavoro e nei luoghi pubblici, secondo la shari’a. La mattina del 8 marzo, a migliaia di donne iraniane che volevano andare al lavoro venne impedito l’ingresso negli uffici e nelle fabbriche: i guardiani della rivoluzione islamica avevano chiesto a tutte loro di tornare a casa, mettersi in testa un foulard e poi tornare al lavoro. Ma loro, invece di tornare a casa, decisero di scendere in piazza.
Se è vero che nel mondo tutte le strade portano a Roma, a Teheran tutte le vie portano all’Università, che è il luogo dove si recarono tutte le donne lavoratrici. Quando arrivarono qui, trovarono ad accoglierle tre organizzazioni femministe della città, che avevano già organizzato alcuni eventi all’Università e che si unirono a loro. Tutte le aule e tutti i corridoi delle facoltà di Ingegneria, di Lettere e di Belle Arti dell’Università di Teheran si riempirono di migliaia di donne, così come altrettante migliaia di persone si riunirono nei cortili dell’Università ascoltando dagli altoparlanti, sotto la neve, i numerosi discorsi.
Nei vari interventi, però, nessuno osava fare accenno alle ultime parole di Khomeini sull’obbligo di indossare l’hijab – ci si concentrava su concetti sicuramente nobili, ma alti e astratti. E le donne lavoratrici non erano lì per ascoltare discorsi generici contro l’imperialismo, ma per rivendicare i propri diritti.
Per questo, non molto tempo dopo, la folla di donne che si era radunata sotto la neve cominciò a perdere la pazienza: prima cominciarono i cori contro l’obbligo di hijab, poi un gruppo di tre donne, con i vestiti bagnati e ricoperti di neve, entrò in una delle aule interrompendo i discorsi dicendo: «Perché rimanete sedute? Scendete in strada e venite a vedere cosa ci stanno facendo gli uomini di Khomeini. Ci sputano, ci inseguono con le moto, ci spingono nelle pozzanghere piene di neve e di fango».
Agli organizzatori non rimase altra scelta che annullare l’evento, ma nel frattempo le donne erano già scese in strada. Fu così che nacque la più grande manifestazione dell’8 marzo di sempre in Iran e forse in tutto il mondo, una manifestazione che iniziò con la marcia di circa quindicimila donne verso l’Università, per la maggior parte lavoratrici e studentesse, e che raggiunse la cifra di cinquantamila persone quando si unirono a loro altre donne e anche un nutrito gruppo di uomini. E non finì quel giorno: durò per ben sei giorni consecutivi.
Prima della fine della manifestazione dell’8 marzo, le manifestanti si diedero di nuovo appuntamento l’indomani nel cortile dell’Università di Tehran. E il 9 marzo, nonostante i guardiani della rivoluzione islamica avessero messo le catene ai cancelli dell’Università e nonostante le aggressioni, migliaia di donne riuscirono comunque a manifestare. Ma fu subito evidente che l’Università non era più né un luogo sicuro né i suoi spazi erano adatti per ospitare un così alto numero di persone. Fu così che il 10 marzo la manifestazione ebbe luogo davanti al Tribunale di Teheran in Piazza Tupkhane (tupkhane vuol dire arsenale), dove si diedero appuntamento circa quindicimila donne, principalmente lavoratrici degli uffici pubblici, e che si erano coordinate e ritrovate grazie all’appoggio dell’Organizzazione delle Donne dell’Iran, un’organizzazione governativa risalente al periodo dei Pahlavi che era stata sciolta subito dopo la caduta della monarchia.
Nonostante la grande partecipazione, il ministro della Giustizia non si fece vedere e al termine della manifestazione le donne lessero una dichiarazione in cui chiedevano pari diritti civili, lavorativi e politici, libertà e maggiori tutele. Ma anche quel giorno non mancarono le aggressioni: una delle rappresentanti ha poi raccontato di come in una delle aule del Tribunale, i guardiani della rivoluzione continuavano a minacciarle di morte, definendo tutte loro delle prostitute e delle serve dell’imperialismo e della monarchia.
Nonostante le brutali repressioni, le manifestazioni continuarono fino al 13 marzo 1979, quando centinaia di donne si radunarono davanti alla sede centrale della Radio Televisione della Repubblica Islamica.
Una studentessa che era tra le partecipanti raccontò poi in seguito gli avvenimenti di quel giorno: «Il numero dei manifestanti era esiguo, era chiaro di come la protesta fosse ormai giunta alla fine, perché le persone non si erano unite a noi. La nostra gente non ci considera “popolo” né tantomeno parte del popolo. Se avessimo manifestato per qualsiasi altra cosa ci avrebbero considerate parte di loro e ci avrebbero supportate. Ma la maggior parte di quegli uomini che si definivano rivoluzionari non capì che non si trattava solo dei diritti delle donne, ma che la posta in gioco era molto più alta».
Nonostante le manifestazioni del marzo del 1979 non videro realizzare i loro ideali, quei giorni segnarono per sempre la storia del movimento iraniano per i diritti civili e le donne costrinsero Khomeini a posticipare l’emanazione della legge sull’obbligo di hijab: la prima circolare interministeriale uscì nel luglio del 1980 e l’obbligo divenne legge il 27 settembre del 1981.
Tuttavia, non possiamo dimenticare che oltre agli ayatollah, ai loro sostenitori, ai fanatici religiosi che cercavano di imporre l’hijab alle donne con la forza e che, impuniti, le attaccavano con violenza, anche la maggioranza delle forze rivoluzionarie e progressiste della società iraniana dell’epoca si schierò contro il movimento delle donne o le lasciò sole. Gli stessi movimenti femministi, che in seguito divennero tra i leader della lotta per i diritti delle donne, considerarono la protesta contro l’obbligo di hijab non urgente e financo inutile, rinunciando a unirsi alle donne che scendevano in strada.
Purtroppo, a quel tempo la febbre della lotta all’imperialismo aveva accecato gli occhi di molte persone, ossessione testimoniata dalle parole dì H. Nategh, docente universitaria e attivista politica rivoluzionaria e antimonarchica: «Io non penso che per le donne iraniane l’hijab sia un problema. Io penso che se il prezzo da pagare per liberarsi dall’imperialismo e dalla dittatura sia quello di mettersi in testa un pezzo di stoffa, noi donne iraniane siamo disposte a pagarlo».
L’assenza del sostegno da parte delle forze politiche e civili alla protesta delle donne fu il motivo per cui, anche se messo inizialmente in difficoltà, il regime alla fine l’ebbe vinta e le obbligò a indossare l’hijab islamico.
La repressione e il fallimento di quel movimento diede inizio a un periodo buio non soltanto per le donne, ma per tutto il popolo iraniano. Infatti, il regime teocratico degli ayatollah mostrò ben presto il suo volto brutale e spietato al mondo intero.
Ma il movimento che si batte per i diritti delle donne iraniane non si è mai spento: nessuna di loro si lasciò scoraggiare, non accettarono il silenzio e, a partire da quel 13 marzo del 1979, continuarono a tenere alta la fiaccola della libertà contro le tempeste causate della tirannia religiosa del regime. A loro si unirono, giorno dopo giorno, sempre più persone, sia donne sia uomini.
Tante e tanti di loro vennero incarcerati, torturati, esiliati, uccisi, ma la voglia della libertà continuò a moltiplicarsi, proprio come le stelle che appaiono più numerose proprio quando la notte si fa più buia, in attesa del sorgere del sole. E come in quasi tutte le rivoluzioni, anche in questo caso emerse una figura che diventò il simbolo di quei movimenti: Homa Darabi, una straordinaria donna iraniana che partecipò sin dal primo giorno alle manifestazioni del marzo 1979 e che, purtroppo, non riuscì a sopportare il peso della sconfitta e decise di togliersi la vita come atto di libertà.
Homa nacque nel 1940 a Teheran. Nel 1960 entrò all’Università per studiare medicina. Iniziò la sua attività politica diventando membro del Fronte Nazionale e insieme a Parvaneh Forouhar fondarono il comitato femminile del partito. Nel 1967 andò negli Stati Uniti per specializzarsi in Neuropsichiatria infantile. Decise poi di tornare in Iran dove divenne presto una docente universitaria.
Con la rivoluzione islamica le cose cambiarono. Homa partecipò attivamente alle manifestazioni a favore dei diritti delle donne. Incontrò l’allora presidente della repubblica islamica, ma non ottenne alcun risultato. Venne espulsa dall’Università perché non portava correttamente l’hijab, le venne persino revocata la licenza medica e le venne chiuso lo studio perché diversi suoi pazienti segnalano alla polizia che non indossava il velo durante le visite.
In una delle ultime lettere che scrisse alla sorella disse: «Perché questi ragazzi con le loro menti brillanti devono perdere i loro migliori docenti per questo stupido pezzo di stoffa?». Homa così divenne un medico senza pazienti, una docente senza studenti e una madre senza le proprie figlie (emigrate negli Stati Uniti).
La mattina del 22 febbraio 1994 dottoressa Homa Darabi, ex docente e capo dipartimento della facoltà della Psichiatria dell’Università di Teheran, prese una tanica di benzina, e si diresse verso piazza Tajrish. Una volta arrivata in piazza si tolse il velo dalla testa e camminando cominciò a gridare «Viva l’Iran! Viva la libertà! e Morte al dittatore!».
Dopo alcuni passi si fermò, si tolse la giacca e si rovesciò l’intera tanica di benzina addosso e si diede fuoco, e così usò l’ultima arma che ebbe a disposizione per combattere il regime, cioè il suo corpo. Homa bruciò davanti agli occhi increduli dei passanti. Ma non finì qui. Ventinove anni dopo le sue ultime parole vengono gridate nelle piazze di tutte le città dell’Iran. C’è un mondo intero che grida «Zan, Zendeghi, Azadi», «Women Life Freedom», «Donna Vita Libertà».