Drastico ridimensionamentoIn Italia sta tornando il tempo dello zero virgola

I numeri ci dicono che la crescita della nostra economia è in rallentamento, eppure l’occupazione aumenta. Resta da capire se si tratti di fiducia nel futuro da parte delle aziende o della diffusione del part-time involontario (e quindi di una patologia)

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L’economia italiana torna agli anni del lungo ciclo “della bassa crescita”? Con questo leitmotiv nelle settimane scorse il Centro Studi della Confindustria ha organizzato un seminario di previsione sulla congiuntura che ha avuto un buon successo di critica. Il titolo sintetizzava alla perfezione la stagione che stiamo vivendo, quella che diversi commentatori e analisti in maniera ancor più efficace chiamano “il tempo dello zero virgola”. Il riferimento è al mero dato del Pil e all’incrocio tra i risultati del 2023 e (soprattutto) le previsioni del 2024. Il 2023 dovrebbe chiudere con un modesto incremento dello 0,7 per cento e il prossimo anno, secondo le previsioni di molte istituzioni, dovrebbe replicare il dato del 2023. Ma, proprio secondo il Centro Studi Confindustria, le cose potrebbero andare ancora peggio, ovvero limitarsi a un rialzo dello 0,5 per cento.

Da un punto di vista concettuale, la differenza è ridotta a pochi decimali: la tendenza segnala però un ritorno al passato per l’economia italiana costretta a ripiegare su sé stessa e a interrogarsi nuovamente sulle lacune strutturali del suo sviluppo. Gli anni della bassa crescita – quelli dal 2000 al 2019, per semplificare – sono stati anche una stagione di ricerca intellettuale attorno alle ragioni del mancato sviluppo, specie se confrontato alle performance che negli stessi anni i Paesi partner erano capaci di sfoggiare. Per ricordare anche succintamente quelle riflessioni, molte diagnosi del tempo si appuntavano sulle mancate riforme, sul deficit di competitività del sistema Italia, sulla bassa produttività di sistema, sulla scarsa incidenza delle politiche di concorrenza, sulla svalutazione del merito, sull’insostenibile peso negoziale delle corporazioni, sulla scarsa produttività di sistema, sull’incapacità di attenuare il divario territoriale interno e su molte altre cause-sorelle.

Molte di quelle tare si ripropongono con pari peso ed evidenza nella situazione odierna e nelle nuove condizioni dello sviluppo alle prese almeno con due fenomeni che a quel tempo non apparivano così immanenti, ovvero la crisi demografica e la transizione ecologica. In mezzo, tra allora e oggi, ci sono state una pandemia e una crisi energetica, senza dimenticare il dibattito sulla “rottura” della globalizzazione e l’esplodere della guerra nell’Est europeo.

Le cause immediate della discesa verso la bassa crescita, dopo le buone performance del 2021 e del 2022, sono state individuate dal Centro Studi Confindustria nel combinato disposto tra tassi alti e inflazione ma, almeno per quanto riguarda l’Italia, sicuramente ha contato l’esaurirsi della spinta dovuta al recupero post-Covid.

Infatti, una volta recuperati i livelli prepandemici, l’andamento della spesa dei consumatori si è diretto di nuovo verso il basso e lo stesso fenomeno ha interessato il settore dei servizi. Ma, rispetto a quanto potevamo prevedere, c’è un altro fattore che ha pesato negativamente: i ritardi nella definizione del Pnrr che hanno determinato uno slittamento dei (suoi) riflessi sul Pil che si prolungherà anche nel 2024. È opinione comune, infatti, che, pur avendo a fine novembre Bruxelles concordato con il governo italiano la revisione degli obiettivi del Pnrr, uno slittamento temporale ci sarà comunque e solo a partire dal 2025 si potranno apprezzare significative ricadute positive sulle tendenze dell’economia.

Dicevamo del credito costoso causato dalla politica dei tassi adottata nell’anno in corso dalla Banca centrale di Francoforte: dal lato delle aziende, l’aumento della “bolletta” creditizia ha abbattuto – “repentinamente”, secondo le associazioni di categoria – la domanda. E una parte delle aziende non ha ottenuto i prestiti richiesti perché – sempre secondo le stesse fonti – anche i criteri di offerta sono stati ristretti, visto il peggioramento delle attese sull’economia e qualche difficoltà delle banche a inizio 2023. Risultato: una pesante riduzione dello stock di prestiti (-6 per cento annuo) e un forte aumento degli oneri finanziari (+10,3 miliardi). «Ne soffre anche la liquidità disponibile che si è rapidamente assottigliata perché le imprese nell’ultimo anno hanno consumato tutta quella che era in eccesso», sostiene Alessandro Fontana, direttore del Centro Studi Confindustria.

La bassa crescita è di conseguenza il portato di un drastico ridimensionamento delle decisioni di investimento: del resto, se non si dispone di adeguati mezzi propri, diventa più costoso scommettere sul futuro. La stima del Centro Studi Confindustria per il 2024 per gli investimenti fissi lordi è -0,1 per cento e a determinare questo andamento, oltre al costo del denaro, contribuiranno il rallentamento della domanda mondiale e il depotenziamento degli incentivi fiscali, come quelli riguardanti Industria 4.0 che influiscono di più sugli investimenti in macchinari e come le agevolazioni legate al ciclo dell’edilizia, dal rifacimento delle facciate al Superbonus.

Ma, scontata questa fenomenologia, alla fine avremo un soft o un hard landing? È questo il quesito che rimbalza tra gli analisti e i centri specializzati e va detto che per ora la maggior parte degli scenari propende per l’atterraggio morbido ma molto, se non tutto, è legato alle scelte di politica monetaria: resterà restrittiva o le banche centrali inizieranno nel 2024 a ridurre i tassi di interesse? Secondo Fontana, per rispondere alla domanda, bisogna guardare in direzione della Fed, perché i suoi comportamenti potrebbero influenzare analoghe mosse della Bce e portare addirittura a un rialzo dei tassi, una nuova doccia gelata sugli investimenti. «La nostra inflazione», sostiene il direttore del Centro Studi Confindustria, «è scesa ben sotto il 2 per cento e nel prossimo anno resteremo forse sotto l’1 per cento, ma le decisioni delle autorità monetarie di Francoforte vengono prese guardando all’insieme delle economie del Continente e, in caso di nuovi rialzi, finirebbero per penalizzarci ulteriormente al di là delle nostre colpe».

La verità è che riferendosi ai soli andamenti congiunturali non esiste questa volta un caso Italia – il nostro storico benchmark, la Germania, è in una condizione decisamente più ingarbugliata – proprio perché è l’intera Eurozona ad avvertire i segni della frenata e quindi i problemi italiani sono diluiti. Ma noi rispetto agli altri Paesi abbiamo – oltre al debito monstre – quelle tare strutturali e quella sorta di idiosincrasia alle riforme che frenano l’andamento dell’economia non solo in chiave congiunturale. Guai a dimenticarlo. «Perché non è iniziato un vero dibattito sui rischi della trappola della bassa crescita? Forse perché il rallentamento dell’economia italiana non è un dato isolato nell’Eurozona, anzi», commenta Fontana. E in questa direzione va anche il piccolo episodio che ha visto l’Istat correggere la stima preliminare del Pil del terzo trimestre da 0 a +0,1 per cento.

Detto delle previsioni generali, vale la pena però approfondire due fattori del caso italiano come l’export e l’occupazione. Nel 2023 le ragioni di scambio dell’Italia sono migliorate dopo il tonfo subito nel 2022, e questo grazie alla circostanza che ha visto il prezzo del gas e del petrolio rimanere nella media sotto i picchi e il prezzo delle nostre merci mostrare una moderata dinamica in aumento. Il miglioramento delle ragioni di scambio ha riportato in attivo i conti con l’estero che «tornano quindi a essere uno degli elementi di solidità dell’economia italiana», come sottolinea Fontana.

Ma che cosa succederà nel 2024? La dinamica attesa dell’export resta appena positiva nel 2023 e poi si allinea alla domanda mondiale nel 2024, ma ciò avviene dopo che per anni la crescita del nostro export è stata superiore a quella degli scambi mondiali facendoci guadagnare quote di mercato. Questo processo nel 2024 è purtroppo destinato a fermarsi ma non a invertirsi: il contributo alla crescita del Pil sarà appena positivo ma «dagli scambi con l’estero, complessivamente nel biennio 2023-24, non viene quel forte stimolo alla crescita economica che si è registrato negli ultimi anni e di cui ora ci sarebbe ancor più bisogno», dice Fontana.

Per chiudere, l’occupazione. I dati degli ultimi mesi (settembre e ottobre) hanno riservato una sorpresa: con un Pil quasi fermo sarebbe stato possibile attendersi un passo indietro nel mercato del lavoro con le aziende pronte a liberarsi di manodopera per far fronte al ristagno della produzione. E comunque poco invogliate ad assumere. Invece, nel mese di ottobre, gli occupati sono aumentati di ventisettemila unità (da aggiungere alle quarantaduemila in più del mese di settembre) facendo raggiungere la quota-record di 23,694 milioni. L’incremento è dovuto ai permanenti mentre scendono i contratti a termine. E se dal confronto mensile ci spostiamo a quello anno su anno la sorpresa è ancora maggiore perché l’incremento è di 458.000 unità, di cui la stragrande maggioranza è costituita da posti fissi. A questi numeri fa da riscontro anche una maggiore mobilitazione di chi era restato fuori dal perimetro dei servizi del lavoro visto che continuano a calare significativamente gli inattivi e ad aumentare le persone che si sono messe in cerca di un posto.

La spiegazione ottimistica di questi dati parla di labour hoarding, la tendenza delle aziende a non licenziare i propri dipendenti e anzi a stabilizzare la forza lavoro temporanea, a non lasciarsi scappare “i bravi” e a far fronte alla crisi demografica ingaggiando le competenze e le braccia che serviranno dopo. La seconda spiegazione sulla sfasatura Pil/occupazione ci parla in primis delle ore lavorate. Nel secondo trimestre 2023 erano calate mentre era proseguita l’espansione del numero di persone occupate (“le teste”). La differenza da sola non spiega il disallineamento se non limitatamente alla diffusione del part time involontario. Così viene alla luce una seconda possibile interpretazione, quella del delinearsi di un’economia labour intensive caratterizzata da un numero crescente di posti a bassa produttività e a basso costo del lavoro principalmente nei servizi low cost come il turismo, la vigilanza e la cura della persona. Un “tutti dentro” per guadagnare poco. In questo caso da uno scenario resiliente passeremmo a uno patologico. Con l’occupazione che garantisce inclusione ma resta incastrata nella trappola della bassa produttività. Anche in questo caso nel 2024 ne sapremo di più.

Questo è un articolo del nuovo numero di Linkiesta Magazine + New York Times Turning Points 2024 in edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. E ordinabile qui.

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