Se non sai approfittarne, il tempo non è galantuomo. Immagina gli anniversari. Spesso si ricorda il passato, un fatto, un uomo, una donna, senza scavare davvero, accontentandoci di una visione parziale, neutra, più o meno la colonna di ciechi dipinta da Bruegel il Vecchio. Nel centenario di Giacomo Matteotti, invece, qualche luce si è accesa a sgombrare le ombre affastellate dal tempo. Meglio: da una certa visione politica che quel cadavere non l’ha mai digerito del tutto. Un bastian contrario, folle, fuori dal coro, isolato, di una sconfinata intransigenza morale, il professorino che studia le carte, approfondisce, indaga, si informa. Un rompiscatole. E poi sta fra la gente, si mescola agli ultimi, organizza le leghe, dirige una camera del lavoro, spiega ai miserabili che il socialismo è fatto di sogni e di cose semplici: saper leggere e scrivere, avere consapevolezza dei propri diritti perché il padrone non possa prenderti in giro, fotterti con un contratto fasullo. Per capire chi è Matteotti, chi sono i protagonisti di una stagione drammatica, devi calarti in quegli anni, consapevole che l’amore per un progetto di vita è come la guerra, trova sempre un modo per ucciderti.
Matteotti non è solo un martire, un uomo che sceglie di battersi con tenacia e continuità contro Benito Mussolini e il fascismo, Matteotti è soprattutto un uomo politico, è il segretario del Partito Socialista Unitario, l’uomo che, quasi alla cieca, combatte per affermare la verità, in solitudine perché nessuno ha annusato il pericolo che dilania il Polesine e da lassù sta calando in ogni altra regione d’Italia, a cerchi concentrici. In pochissimi comprendono la gravità della sua denuncia. Lo squadrismo agrario ha i connotati delle squadre d’azione fasciste ma si stenta a vedere, lo si giudica ancora un fatto circoscritto, tipico di zone arretrate.
E invece Matteotti è il primo a intuire che il Duce sta inaugurando una nuova e diversa stagione politica figlia dello spirito germinato nelle trincee e della crisi che ha colpito la piccola borghesia, privata del ruolo sociale che aveva raggiunto negli anni che precedono la Grande Guerra.
L’antibolscevico che non crede nel bengodi della rivoluzione e che invece lavora perché vi siano più scuole, più case, più ospedali per alleviare dolore e povertà del proletariato. L’uomo che crede nella democrazia parlamentare e nella libertà in un’epoca in cui la democrazia è un cane morto, bastonata da fascisti e da comunisti alla stessa maniera. E infatti lo scrive: la stampella del fascismo è il comunismo. Non crede nella palingenesi della rivoluzione, immagina invece accordi parlamentari con i liberali di Giovanni Amendola e con i popolari di don Luigi Sturzo per allontanare il Duce dal potere. Ci proverà prima della marcia su Roma (ottobre 1922) d’accordo con Turati, scontrandosi con l’opposizione del Vaticano, della Corona e dei massimalisti di casa sua. Niente da fare.
Per tutte queste ragioni l’uomo è un eretico, un riformista inviso a destra e sinistra, il destino del riformismo italiano. Una cultura di minoranza che non ha mai avuto del tutto diritto di cittadinanza in un’Italia pervasa dai massimalismi. Quando il cadavere di Matteotti viene scoperto, mentre Piero Gobetti ne esalta la figura politica, Antonio Gramsci lo attacca con parole di fuoco.
Il necrologio del segretario del Partito Comunista d’Italia ha un titolo forte, uno schiaffo: «È morto il pellegrino del nulla», inefficace la sua azione politica, fine a sé stessa. La sintesi: ha sbagliato tutto. Un nemico del proletariato, un socialtraditore, l’epiteto usato dai vertici dell’Internazionale moscovita contro Filippo Turati, contro i dirigenti riformisti della Cgil, a partire da Bruno Buozzi. Perché? Perché i comunisti ritengono, confidando nella linearità della storia interpretata secondo il canone marxista, che la crisi del capitalismo sia sul punto di provocare la rivoluzione il cui sbocco finale è inevitabile. Di certo c’è che chi immagina accordi parlamentari per defenestrare il Duce altro non è che un traditore della classe operaia. Ma i fatti hanno la testa dura. Proprio il 1924 italiano, in buona compagnia con il resto del mondo, smentirà quell’analisi e obbligherà anche Gramsci, anni dopo dal carcere, a fare autocritica.
Oggi sappiamo che Matteotti venne assassinato per la sua irriducibile e continua opposizione al Duce e al fascismo, perché aveva scoperto il falso nel bilancio dello Stato – non c’era pareggio tra entrate e uscite come dichiara il re nella seduta di apertura della nuova legislatura, ma una voragine di circa due miliardi di lire – e in ultimo per aver raccolto le prove di una tangente di trenta milioni di lire pagata dalla Sinclair OIL Company ad alti membri del regime tra i quali Arnaldo, il fratello amatissimo. Matteotti ne avrebbe con ogni probabilità parlato alla Camera l’11 giugno. Venne rapito e ucciso il giorno prima.
Un uomo solo, Matteotti, non un eroe fuori e lontano dal tempo. Un eretico che della libertà ha fatto una ragione di vita. Sarà per questo che non fu tanto amato, è per questo che dobbiamo ricordarlo. Assieme al monito che la storia non è maestra di niente. Cicerone ha torto, Dante ha ragione: ’Dietro a’ sensi la ragione ha corte l’ali’.