Arriva da Noto, ma non Noto in Sicilia, Noto in Giappone, nella prefettura di Ishikawa. Qualche anno fa Hoshitaro Asada, professionista con alle spalle nove anni di lavoro nella sakagura della città costiera giapponese, ha scelto l’Italia per avviare un progetto molto ambizioso, produrre un sake italiano in Italia, che possa sposarsi bene con la nostra tradizione gastronomica. Il perché ha a che fare con alcune caratteristiche uniche del nostro Paese, come la disponibilità di un’acqua pura e della materia prima necessaria, il riso, produzione importante soprattutto per alcune delle nostre regioni settentrionali. Ma c’è qualcosa di più. Oltre all’idea, c’è una filosofia produttiva profondamente diversa dalla nostra e molto più simile a una missione di vita.
Durante le sue visite in Italia fin dal 2017, Asada inizia a intravedere la strada da percorrere e l’incontro con Nicola Coppe, che ha già avviato la produzione di sake nel proprio laboratorio di Feltre, tra le montagne in provincia di Belluno, crea le condizioni perché questo percorso inizi, permettendogli di arrivare, qualche mese fa, alla sua prima produzione. È una strada che prevede diversi ostacoli, sacrifici, ma anche amicizia e una strana collaborazione, in cui le differenze culturali emergono ogni giorno, trovando nel fermentato di riso una lingua comune.
Una sakagura e un’izakaya a Feltre
C’erano una volta un italiano e un giapponese che producevano sake a Feltre. E no, non è una barzelletta. La storia ha inizio nel 2017, quando Hoshitaro Asada viene al Vinitaly per vendere il sake dell’azienda giapponese per cui lavora e capisce che gli italiani sul sake hanno le idee molto confuse. Per loro pare più una strana bevanda esotica da bere calda a fine pasto… «Ho capito che dovevo spiegare il sake agli italiani», dice Asada.
Un anno dopo alla Milano Sake Challenge incontra Nicola Coppe, giovane feltrino fresco di studi in microbiologia ed esperto di fermentazioni. Coppe fermenta praticamente di tutto, dalle bucce d’uva alla frutta, dal malto fino alle kombucha e ovviamente non gli manca il riso, perché quando conosce Asada ha già provato a fare anche il sake.
La cosa più corretta da dire sarebbe che Coppe fermenta, punto. Anzi, principalmente fermenta idee e la sua mente pare in costante movimento. Lo capisci quando, nel risponderti a una domanda, parte in spiegazioni che aprono porte su innumerevoli processi, progetti, esperienze e visioni che non basterebbe un feuilleton digitale in più puntate a metter giù. Basti pensare che, per non farsi mancare nulla, nel tempo libero da fermentazioni, insegnamento – è docente di microbiologia della birra all’Accademia delle Professioni di Padova – e consulenze, ha pensato bene di aprire un’izakaya (un’osteria giapponese, ndr) a fianco del laboratorio.
L’osteria si chiama Fermentazioni ed è aperta ogni sera dal giovedì alla domenica. Qui il piatto forte è il ramen, preparato alla maniera tradizionale, da abbinare a sake della casa, sake giapponesi, tutti i fermentati che Coppe riesce a immaginare, una selezione di vini e non solo.
«Siamo posizionati bene tra i ristoranti stellati italiani, era un peccato che a Feltre non ci conoscesse nessuno» racconta Coppe. «Poi si è liberato lo spazio nel capannone accanto al laboratorio. Sarebbe stato troppo grande per la produzione, così abbiamo deciso di aprire un’izakaya. Mi era sempre piaciuto questo tipo di format e in particolare il ramen. Siamo partiti proprio da questo piatto, che al momento è molto in voga e siamo riusciti a farci conoscere fin da subito dalla comunità locale».
Poi il ramen ha trainato anche l’interesse verso il sake. «Sono tutti curiosi di bere sake, cosa che prima non avrebbero mai fatto e stiamo pian piano scardinando questa convinzione della bevanda da fine pasto», sorride.
La missione, l’arte, la fatica
Mentre Coppe è impegnato in izakaya, Asada continua a occuparsi del sake. Alla Sogen Sake Brewery di Noto ne ha imparato il metodo di produzione – occhio a questa parola, metodo – e in pochi anni ha imparato l’italiano quanto basta per parlare del proprio lavoro. «Qui devo controllare la temperatura ogni giorno», dice mostrando il riso in fermentazione in una delle piccole cisterne d’acciaio del laboratorio.
Frasi e termini possono sembrare elementari, ma lo sguardo concentrato con cui li cerca rivela la stessa necessità di precisione di ogni suo gesto. «Chi vuole fare sake, non può fare pausa», dice. Di nuovo, sembra semplice ma non lo è.
«Il processo è importante. Quando faccio il sake ci sono momenti in cui non mi posso fermare, nemmeno per mangiare. Ci vogliono due mesi per fare il sake e il processo non può essere automatico», spiega. «Quando preparo il koji per il sake – si tratta di un fungo impiegato per trasformare gli amidi del riso in zuccheri fermentescibili da parte dei lieviti, ndr – ci sono tre giorni in cui non posso dormire, perché devo controllare la temperatura ogni due ore, mescolarlo e sentirne gli aromi».
Non si scappa neanche quando, come all’inizio dell’anno, si è beccato Covid e febbre alta. «Il sake non è lavoro, è arte». Se negli anni Ottanta ci siamo appassionati a quel «dai la cera, togli la cera» del maestro Miyagi in “Karate Kid”, allora forse potremo intuire che arte è la parola per noi più comprensibile per definire una missione di vita, una dedizione totale in cui la fatica è una sorta preghiera laica e ci si ritrova, attraverso il metodo, a essere in carne e ossa parte di quella stessa materia che si sta lavorando. Non è puramente un lavoro.
Anche per questo forse, nonostante la tragicomica burocrazia italiana, la pandemia e pure un violento terremoto che all’inizio di quest’anno si è messo di mezzo colpendo anche la sua città di origine, Asada non si ferma. L’obiettivo è stabilirsi prossimamente a Biella, dove ha trovato l’acqua ideale per aprire la propria sakagura italiana. Nel frattempo la Hoshitaro Sake Brewery fermenta instancabilmente tra le montagne venete.
La domanda sorge spontanea: perché in Italia? «In Francia, Spagna, Germania, Regno Unito, non ci sono né buona acqua né buon riso. In Italia sì», dice Asada. E c’è anche molto spazio per insegnare, tanto l’arte della produzione quanto la cultura di bere il sake. Molte sakagura europee utilizzano riso giapponese e acqua locale filtrata. «Così non avrei una grande storia da raccontare», sorride.
Lost in fermentation
Quando metti insieme la metodicità più tradizionale e un vulcano di idee con delle salde basi scientifiche – per giunta di due culture diverse – può succedere di tutto.
«Stiamo facendo vari esperimenti, con diverse varietà di riso italiano», dice Coppe. Da quando è arrivato in Italia, Asada si è messo a studiarle attraverso il centro ricerche Italian Rice Experiment Station (Ires) di Massimo Biloni a Vercelli. In febbraio ha portato a termine la sua prima produzione. Più di ottocento lattine di sake Junmai Muroka (una tipologia di sake fresco e non filtrato) a partire dalle varietà Carnaroli, Fortunato e Castelmochi, levigate all’ottanta per cento, che consiglia di provare con diversi tipi di abbinamento: cioccolato, ma anche verdure sottaceto o gorgonzola. «Mi piacerebbe usare tutti ingredienti italiani, non solo riso e acqua, ma anche lieviti e koji, che ancora qui non trovo», afferma Asada. Anche se in futuro non esclude di riuscirci.
Nel frattempo in laboratorio i diversi approcci si incontrano. «Il mio è un approccio meno tradizionale e più scientifico e ho anche altre produzioni molto diverse» spiega Coppe. «Hoshitaro ha introdotto tante migliorie nella mia produzione di sake. Ho imparato a lavare il riso in maniera diversa per non rompere i chicchi. Anche il modo in cui lui tocca il riso non è il modo in cui lo toccavo io, piuttosto lo sbadilavo come un birraio sbadila l’orzo», ride.
«L’anno scorso – racconta Coppe – abbiamo fatto un esperimento. Ho fatto fare a lui lo shugo, che è praticamente la madre del sake. Il procedimento per ottenere l’impasto richiede una manipolazione lunga e complessa. Alla fine ho svolto le mie analisi microbiologiche e le analisi hanno dato ragione al metodo tradizionale. Grazie a un controllo di temperatura ben preciso e a una gradazione alcolica crescente, siamo partiti da una concentrazione di batteri importante, che poi alla fine era sparita. Questo significa che, ancor prima della scoperta della microbiologia e dei microrganismi, i giapponesi adottavano questo metodo empiricamente perché così il sake veniva meglio, un po’ come abbiamo fatto con i formaggi».
Poi chiedi ad Asada se gli piace il sake di Coppe, lui sorride: «Adesso è buono».