OmotenashiIl delicato gioco di ruoli alla base della cultura giapponese

Nel nostro ultimo viaggio a Tokyo abbiamo imparato come farsi benvolere in terra straniera, per scoprire tutti i segreti della meravigliosa cucina nipponica

Tornare in Giappone dopo dieci anni è un po’ come esserci per la prima volta. Significa viverlo con occhi sicuramente più consapevoli, una capacità di comprensione e sensibilità maggiori e uno stupore che vi auguro possa essere sempre crescente e mai calante. Arrivando a Tokyo si viene letteralmente sopraffatti dalla funzionalità, dall’ordine e dall’efficienza. Una comunità che lavora con un senso civico impeccabile, istruita sin dai primi anni dell’asilo e della scuola materna a rispettare un codice di regole ben precise, che questi bambini porteranno con sé una volta ragazzi e poi adulti. Tokyo è una megalopoli di quasi quindici milioni di abitanti (che considerando l’area extra urbana sfiorano i quaranta), in cui tutto funziona senza intoppi e apparentemente senza sbavature.

La dedizione al lavoro e il rispetto per qualunque tipologia di mestiere, senza che vi sia un migliore o peggiore, fa sì che la mentalità prevalente guardi sì a un’economia di massa ma con un’ottica di stampo ancora piuttosto socialista. Non si lavora per arricchirsi e per viziarsi, né per strafare e dare mostra di sé ma come scopo personale, per condurre una vita coerente, per far crescere dignitosamente la propria famiglia e dare la possibilità ai propri figli di studiare, educarsi, diventare cittadini del mondo. Lo stress da queste parti è mal tollerato e non si lavora certo per farsi sopraffare dal business.

La smania di successo unita alla venalità del denaro è qualcosa che qui si vede veramente di rado e anzi, l’inquietudine che siamo soliti osservare nel temperamento di molti imprenditori europei qui è assolutamente mitigata. Il rapporto umano tra il giapponese e l’occidentale, che si snocciola in una serie infinita di inchini, gestualità ripetute e decine di arigato gozaimasu è, in realtà, un grande gioco di ruoli.

Un rituale che dipende dalla posizione in cui i due interlocutori si ritrovano in quel momento ed è calibrato – è bene ricordarlo – da quella stessa educazione che è stata impartita ai piccoli nei primi anni di vita. Ecco spiegato almeno in parte la difficoltà estrema (se non addirittura titanica) di riuscire a penetrare all’interno delle maglie del posto, di penetrare contesti locali e farsi ben volere al loro interno. Nel momento in cui si è ospiti è un dovere accogliere e saranno con voi sino all’ultima porta dell’edificio, fino alla portiera del vostro taxi. Qualora però non siate presentati come tali e non vi sia un rapporto pregresso o un’entratura di qualche sorta, bene allora la loro scelta non sarà solidale con voi e la risposta sarà tendenzialmente no. Non ne stiamo facendo una questione economica e non è qualcosa che può essere negoziato. Lo stop avviene per un mancato rapporto e non è per via della presenza o meno di un ritorno economicamente sensibile. La capacità relazionale è tutto. «Passo più tempo a parlare con le persone che a cucinare» mi ha confessato uno chef italiano che vive in città da tanti anni.

Nel momento in cui vi scambierete dei biglietti da visita (ricordate di prenderli sempre con due mani e di sostare un paio di secondi nell’intento di leggerli, anche se sarà palese il vostro inutile sforzo), questo sancirà l’inizio di una vostra conoscenza personale, individuale. Da questo momento siete sicuramente un nome e un cognome e non un normale ospite, godrete sempre di rispetto ma diversamente, sarete ben visti e potrete provare ad avanzare delle richieste. È così che siamo riusciti a farci aprile le porte di una delle sake brewery più antiche del Paese, a carpire i segreti del matcha piuttosto che andare a vedere una delle produzioni di baumkuchen migliori.

Ancora, è stato grazie a un incontro di tre ore, davanti a un pranzo kaiseki e una chiacchierata con diverse domande sul nostro lavoro e sulla nostra identità che siamo riusciti ad andare a Kobe per un racconto guidato di una delle tipologie di carne più famose al mondo. Il delicato incontro con l’identità giapponese getta in campo dei ruoli. Se sarete abili in questo gioco di parti verrete assolutamente rispettati, conquistandovi forse anche una qualche simpatia.

E se è vero che a Tokyo non esistono cestini per strada, che i taxi hanno le portiere automatiche e i tassisti i guanti bianchi, che quando si deve fare la fila si fa la fila, è anche vero che la gentilezza, apparentemente, non sembra mai mancare. È gentile e delicato anche il modo in cui lavorano il riso per il sushi, il garbo con cui affettano un trancio di tonno, la delicatezza con cui ti porgono e ti ritirano un piatto. Tutto è codificato, anche le sfumature qualche modo e forse non esiste altra cultura gastronomica al mondo così variegata e allo stesso tempo più compartimentata. In genere chi fa sushi non propone altro. Chi invece fa cucina da banco – più o meno lussuosa – propone un menu a più corse e qualche piatto alla carta dove le ricette sono “cucinate”: marinature, fritture, stufati, brodi, frittate, pesci ai carboni o fiammati. C’è chi fa solo tempura e chi invece facendo ramen fa anche gyoza, per via della lavorazione dell’impasto. Diversa ancora sono gli yakitori, in assoluto uno dei modi di mangiare più divertenti che possiate fare per strada, mettendovi in coda tra un posto e l’altro.

Tutt’altra cosa invece sono teppanyaki, sukiyaki, okonomiyaki e yakitori, questi ultimi perfetti da mangiare nelle piccole trattorie per strada lungo il canale di Meguro City. Tra le ultime mode del sushi, c’è quella di mangiarlo nei posti dedicati ma in piedi: un’ora sola di slot per godersi tutto il pesce possibile e poi via verso altre destinazioni.

Se siete amanti dei dolci qui c’è un altro alfabeto sul tema che vede come mutevoli a seconda delle stagioni: castagne, fagioli rossi e frutta (uva soprattutto ora) e riso. Il mochi è un po’ la mamma di tutti i dolcetti rotondi che vi capitano a tiro, nelle declinazioni più raffinate con l’uva pregiata piuttosto che al tè matcha o al sesamo nero. Non si vedono panna o crema, piuttosto delle vie di mezzo tra la nostra panna cotta e il loro chawanmushi.

Prima di partire sono anche venuta a sapere dell’esistenza di un sushi che qui chiamano fermentato, perché lasciato sotto sale e riso per circa sette mesi così che si instauri una fermentazione acido lattica. Purtroppo non sono riuscita né a provarlo né a farmi raccontare molto di più ma l’impegno è di ritornare sul tema in futuro con tutti gli approfondimenti del caso.

Courtesy immagini Clay Banks, Daisy Chen