Italia, Svizzera, Dubai, Montecarlo, Belgio poi Singapore, Macao, Tokyo e si riparte. Nell’agenda di Leopoldo Puzielli, che di mestiere fa il consulente e il formatore sul servizio del sake, la lista delle destinazioni è lunga. Marchigiano, con alle spalle una carriera da sommelier negli hotel di mezzo mondo, nel 2009 ha incontrato la celebre bevanda giapponese e pian piano se n’è innamorato e l’ha studiata, diplomandosi in numerosi corsi e approfondendone la conoscenza fino a insegnarla, anche ai giapponesi.
Strano? C’è poco da stupirsi, perché i confini non sembrano essere mai stati un limite per Puzielli che, tra le altre cose, è anche ambasciatore ufficiale dei vini francesi (proprio con lui avevamo fatto due chiacchiere sulle diatribe tra vini italiani e vini francesi). Ciò che forse non si aspettava è che la conoscenza del vino, sia italiano che estero, gli sarebbe servita per promuovere il servizio di una bevanda che rispetto al Mediterraneo ha origini lontane, ma che con il vino ha molti aspetti in comune.
Nell’intervista a Linkiesta Gastronomika, racconta come questo si metta in pratica, sfatando alcune convinzioni che potrebbero tornare utili anche in caso si abbia in programma un viaggio nel paese del Sol Levante.
Leopoldo Puzielli, hai costruito una carriera da sommelier ed conoscitore di vini e distillati, come sei arrivato al sake?
«Ho provato per la prima volta il sake a Dubai nel 2009. Lavoravo in un hotel che aveva il miglior ristorante giapponese in città. Poi, nel 2012, sono andato in Giappone e da lì mi sono recato ogni anno ad Osaka e Tokyo. Nel 2015 ho passato il corso della Sake Sommelier Association (ne esiste anche una sezione italiana) e in seguito ho scritto come corrispondente dall’Europa per il Taru Magazine ad Osaka sulle dinamiche di mercato del sake nel continente. Nel 2018 ero in giuria alla London Sake Challenge e al Kura Master di Parigi e nel 2022 ho passato in Giappone il Certified Sake Professional. Oggi sto studiando per ottenere il diploma della Japan Sake Association in Giappone».
In cosa consiste il tuo lavoro con il sake?
«Mi occupo di promozione e formazione nella cultura del servizio del sake attraverso nove mercati: Regno Unito, Francia, Montecarlo, Dubai, Svizzera, Italia, Singapore, Macao e Giappone. I miei interlocutori sono principalmente sommelier di hotel e ristoranti, ma anche chef, studenti di scuole alberghiere, giornalisti e consumatori».
Per insegnare a servire il sake ti servi di parallelismi con il vino, perché?
«È uno dei possibili approcci per demistificare il sake, questa bevanda trasparente misteriosa e molto cara rispetto ad altre più familiari alla nostra cultura. Il sakè è una bevanda brassata, un po’ come una birra, ma con proprietà organolettiche che si avvicinano molto di più al vino (trovate il sake anche nel piccolo dizionario di cucina giapponese di Gastronomika, ndr). Il retrogusto ad esempio è molto importante e non è difficile costruire un parallelismo con la degustazione del vino, anche se ci sono aspetti che differiscono. Ma un altro aspetto interessante è giocare sul confronto con il vino per spiegare al personale di sala come proporre ai clienti bottiglie di sake più costose. In questo caso, ad esempio, metto in comparazione i Grand Cru della Borgogna e i sake più sofisticati. Nel caso di un Borgogna il prezzo può essere indicato dalla particolarità di espressione di un determinato terroir e dal retaggio storico del brand. Differentemente, per un sake è la visione del produttore a far sì che elementi molto semplici, come riso e acqua, raggiungano un gusto che non ha eguali tra le altre bevande. In questo modo costruisco un parallelismo per spiegare come portare un cliente a scegliere un sake molto costoso, anche se si tratta di un prodotto a cui è meno abituato».
Quanto è storytelling e quanto è conoscenza?
«Il sake è diverso dal vino a livello organolettico e prevede un approccio di creazione artistica che per alcuni aspetti è simile a quello del vino, ma per altri differisce molto. Il vino è frutto di un territorio e anche di un contesto storico e culturale. Il sake è come se nascesse da un foglio bianco. In media ogni produttore di sake fa dodici sake diversi con la stessa acqua e gli stessi ingredienti e deve immaginare come creare espressioni diverse in base alle variabili su cui può intervenire. Ci sono diverse tipologie di lievito, temperature di fermentazione, diversi tipi di riso, diversi tipi di acqua, diversi metodi per lavorare il riso prima della fermentazione e l’aggiunta del kogi, che genera lo zucchero per la fermentazione, può contare su sette tipi diversi di questo fungo. Poi ci sono diversi tipi di filtrazione, si può pastorizzare o meno, diluire o meno e così via. Tutto ciò, a differenza del vino, che conta su disciplinari e denominazioni ben precise, non è necessariamente legato a un territorio, ma soprattutto alla creatività e a ciò che il produttore vuole ottenere. Il colore del sake non aiuta, è spiegare tutto il processo creativo che fa porta un cliente a scegliere questa bevanda».
Come si gestisce il pairing a tavola?
«A tavola con il sake si può creare qualcosa di fantastico, tutto dipende da che tipo di esperienza si vuole far vivere al cliente. Mentre l’abbinamento del vino chiama spesso in causa anche il territorio di origine, con il sake c’è più flessibilità. Basta che sia gustativamente adatto per il piatto. Inoltre, grazie alla sua carica di umami il sake funge da amplificatore dei sapori e aiuta a risolvere alcuni problemi di abbinamento che invece affliggono il vino, come quello con i carciofi, ad esempio. Si può giocare con spezie esotiche e anche con piatti a prevalenza vegetale che con il vino creano più difficoltà. Uno degli aspetti più interessanti sta anche nella teatralità del gesto di mangiare al ristorante e questa sublimazione con il vino c’è ma è diversa. Il vino è un protagonista, è più celebrativo e crea aspettativa, dopo una bottiglia ciò che aspetti nel mondo del vino è l’annata successiva. Invece con il sake ogni bottiglia è tesoro e dovrebbe essere un ricordo unico perché, come vuole la cultura giapponese, il boccone sparisce in fretta, ma nelle papille, nel cuore e nella mente deve restare a lungo un turbine di colori, sapori ed esperienze. Con la proposta e il servizio il personale ha la missione di rendere unico questo ricordo».
Ci sono dei luoghi comuni in cui ti imbatti più spesso, a Oriente e a Occidente?
«Sì e la cosa buffa è che sono gli stessi sia a Est che a Ovest. Tutti mi chiedono se il sake vada servito caldo. Non capisco da cosa dipenda, ma ogni volta è così, tanto in Italia quanto in Giappone. Ci sono dei sake tradizionali che sono fatti per essere bevuti caldi. Ma non tutti i sake vanno riscaldati perché riscaldandoli i sapori cambiano. Il sake è come una partita a scacchi, devi immaginarlo già finito quando inizi a produrlo. Ce ne sono alcuni che possono addirittura essere degustati a diverse temperature e per ogni temperatura rivelano aromi diversi, ma vengono prodotti appositamente per dare questo risultato. Bisogna innanzitutto conoscere il prodotto per capire come apprezzarlo. Chissà, forse questa storia del sake caldo sarà dovuta all’immagine del vecchietto giapponese che beve sake in certi manga. È anche su queste immagini che cerco di far leva per scardinare gli stereotipi».
Va bene in Europa e in Medioriente, ma occorre spiegare tutto questo anche in Giappone?
«Qui occorre una precisazione. In Giappone la maggior parte dei bevitori di sake ha dai cinquant’anni in su, mentre fuori dal Paese il cliente tipo che sceglie sake sono i ragazzi tra i venticinque e i quarantacinque anni. In Giappone la maggior parte delle persone quando esce beve birra e il sake è visto come una bevanda tradizionale che si beve in occasioni speciali. Mentre sono anni che l’export del sake vive una crescita importante per la richiesta da parte di altri paesi (secondo i dati del Ministero dell’Agricoltura Giapponese diffusi da Sake Sommelier Association Italia, nel 2020 il nostro paese era al primo posto in Europa per volumi di importazione, ndr). Il personale dei ristoranti giapponesi di un certo livello è più abituato al vino, perché lo si studia di più e se ne vende di più rispetto al sake. Adesso che il Giappone sta vivendo un vero e proprio boom del turismo, succede che tanti stranieri quando arrivano vogliano provare il sake, ma nessun hotel è preparato per questo, neanche le grandi catene internazionali, ed è un paradosso pazzesco. Quindi c’è bisogno di formazione del personale, che spesso è giovane, non lo conosce e non lo sa spiegare».
Qual è il profilo del consumatore-tipo di sake in Italia?
«È una persona giovane, curiosa, che non necessariamente è un grande esperto di enogastronomia ma che vuole viaggiare con la mente, vuole passare un bel momento e non ha paura di allargare gli orizzonti. In questo caso il servizio sarà molto dinamico, mi dovrò preparare, devo farlo sognare, solleticarlo con delle idee. In Europa il sake costa il doppio o il triplo rispetto al Giappone, però c’è una clientela che cerca e che vuole provare cose nuove, lo vedo ad esempio in alcuni hotel a Milano. Al tavolo abbiamo dieci-quindici secondi per convincere un cliente a scegliere una bottiglia. La mia formazione è molto legata al pragmatismo nel servizio. Non posso rendere ragazze e ragazzi esperti di sake in qualche giornata di lezione, ma è importante che innesti in loro una consapevolezza nella loro capacità di proposta».