Questo è un articolo del numero speciale di Linkiesta Paper, pubblicato in occasione del secondo anniversario della guerra in Ucraina. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. È ordinabile qui.
Per la grande maggioranza degli italiani l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia è partita il 24 febbraio 2022 e molti di loro hanno continuato a credere, dopo l’avvio della cosiddetta operazione speciale, alla menzogna della guerra per procura dell’Occidente e della comprensibile reazione russa all’accerchiamento della Nato, perché dal 2014 avevano iniziato a convincersi che il sogno europeista dell’Ucraina fosse un complotto ordito dai burattinai della Cina e del Pentagono per insinuare un maligno cuneo atlantico nell’ordine politico post-sovietico. Insomma, il fatto che nel 2022 già da otto anni militari e carrarmati di Mosca stessero saldamente sul territorio ucraino e avessero annesso la Crimea e occupato parte del Donbas era stato derubricato a incidente in cui rilevavano, in primo luogo, il concorso di colpa amerikano e le conseguenze autolesionistiche delle sanzioni economiche imposte dalle sempre più discutibili, se non servili – così si ventilava – ragioni di fedeltà euro-occidentale.
La stessa realtà criminale del regime russo e del potere putiniano, malgrado l’abbondanza antologica di nequizie, era quasi unanimemente ricondotta alla barbarica intemperanza del nuovo zar del Cremlino e non a un disegno che, nei suoi principali caratteri ideologici e strategici, era stato declinato per anni con una precisione minacciosa e una manifesta potenza espansiva, dal mattatoio ceceno alle incursioni nel cuore dell’Europa.
Insomma, per il sistema politico e per l’opinione pubblica italiana Vladimir Putin era a destra il campione del revanscismo sovranista, del machismo conservatore e del tradizionalismo cristiano e a sinistra l’interlocutore complicato, ma obbligato di una Ostpolitik necessaria e di quella sorta di politica internazionale dei due forni che, fin dai tempi della prima Repubblica (non solo per colpa del Pci), aveva fatto dell’Italia atlantica un interlocutore amichevole e corrivo del mondo sovietico. Tutti ricordano l’imbarazzante retorica apologetica di Silvio Berlusconi e di Matteo Salvini nel proclamare Putin campione dello stile democratico e il disonorevole gemellaggio del M5S con Russia Unita, culminato nelle scorribande dei manipoli di Mosca nell’Italia in balia del Covid, su gentile invito di Giuseppe Conte. Pochi hanno ancora in mente il dichiarato allineamento all’alleanza transovranista Trump-Putin di Giorgia Meloni, che, ancora a febbraio 2022, dichiarava: «Che significa chiedermi se sto con Putin o con gli americani?» (e addebitava all’Ue le perdite degli imprenditori italiani, cui era precluso l’accesso al mercato russo). Quasi nessuno rammenta invece l’imbarazzante cerchiobottismo dei leader della sinistra democratica, che, senza avversare la linea decretata da Unione europea e Stati Uniti, anche dopo il 2014, hanno sempre trovato l’occasione di deplorare «le sanzioni che non solo si dovrebbero togliere, ma non si sarebbero mai dovute mettere» (Romano Prodi) o «che non possono essere rinnovate con il pilota automatico, senza discussioni» (Paolo Gentiloni), di denunciare una «guerra fredda fuori dalla storia e dalla realtà» contro un «partner strategico dell’Europa» (Matteo Renzi) e, perfino a pochi giorni dall’inizio dell’“operazione speciale”, di censurare «l’atteggiamento iper-direttivo degli Stati Uniti» e «il dibattito sugli allargamenti successivi di Ue e Nato» rispetto a una Russia, che «è gravemente difettosa sul piano democratico, ma non ha nel suo DNA nessuno dei geni che produssero le dittature nazista e fascista» (Emma Bonino).
Anche sull’Ucraina, a salvare l’Italia dall’ignominia e dalla rovina è stato quel vincolo esterno che in molti altri casi, su molti altri temi, l’ha trattenuta dall’andare dove l’avrebbe portata il cuore, ma fortunatamente non le gambe. L’Europa “matrigna” le ha impedito di suicidarsi come la Grecia, affogando con la pietra al collo di un debito non onorabile. La Nato “bellicista” le ha impedito dal 2014 a oggi di rompere il fronte atlantico, di iscriversi alla disonorevole riserva dei protettorati moscoviti o degli Stati combattenti per fare dell’Europa, o almeno di una parte di essa, la Vichy di Putin o di praticare un neutralismo ruffiano, amico di tutti e nemico di nessuno, che è il crisma spirituale della nostra politica estera.
Certo, in questo decennio c’è stata anche la parentesi di Mario Draghi, con la sua intelligenza della storia e consapevolezza del carattere esistenziale della sfida di Putin non solo all’Ucraina ma al mondo libero e con il suo senso del tragico, degradato dalla politica italiana nella commedia degli irenismi e affarismi compromissori. Ma è stata appunto una parentesi, che si è chiusa come uno spazio di contingenza fortunosa. Dopo di lui l’Italia è tornata a oscillare tra un congenito difetto di convinzione politica e un naturale eccesso di furbizia retorica, così da rimanere dalla parte giusta della storia in modo sempre più condizionato e equivoco, come dimostra la misura risibile dell’apporto finanziario garantito all’Ucraina (gli aiuti militari sono stati, in termini assoluti, inferiori a quelli della Lituania, che ha il 5 per cento della popolazione dell’Italia e il 3 per cento del Pil italiano) e come confermano le sempre più marcate predilezioni trattativiste della maggioranza di centro-destra e le sempre più sperticate invocazioni pacifiste della sinistra.
La verità è che la politica italiana che conta – a destra come a sinistra – usando come alibi lo stallo delle operazioni militari chiuderebbe, se potesse, il dossier Ucraina cristallizzando lo status quo bellico – chi ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato – e pasticcerebbe su ipotesi di smilitarizzazione e neutralizzazione dell’Ucraina, che sono offensive e ridicole per un Paese che non da due anni, bensì da dieci è aggredito dalla Russia.
Quello che in futuro l’Italia farà sull’Ucraina, per fortuna, non dipende però dall’Italia, ma dagli esiti che in questo terribile e speriamo non orribile anno elettorale avranno le elezioni in Europa e negli Stati Uniti. Che Dio la mandi buona agli ucraini.
Questo è un articolo del numero speciale di Linkiesta Paper, pubblicato in occasione del secondo anniversario della guerra in Ucraina. In edicola a Milano e Roma e negli aeroporti e nelle stazioni di tutta Italia. È ordinabile qui.