Tra le parole e le immagini più significative della riunione del Consiglio europeo di ieri, quella che per l’ennesima volta ha ribadito il fermo sostegno all’Ucraina, spiccano da un lato il messaggio di Volodymyr Zelensky, che ha giustamente definito «umiliante per l’Europa» la scarsità di munizioni effettivamente inviate, al di là delle chiacchiere; dall’altro il sorriso del capo del governo ungherese, Viktor Orbán, che ha mandato addirittura un messaggio di congratulazioni a Vladimir Putin per la sua vittoria elettorale (per i più distratti, ricordo che Mosca ha fatto votare, se così si può dire, anche nei territori ucraini occupati). Posizioni che peraltro non sembrano di ostacolo al prossimo ingresso del leader sovranista nel partito dei Conservatori e riformisti europei presieduto da Giorgia Meloni. Dopo il voto per le elezioni europee, però (e prima del voto americano, come nota oggi Claudio Tito su Repubblica, secondo il quale l’asse con Orbán sarebbe funzionale anche a recuperare un rapporto con Donald Trump, qualora dovesse tornare alla Casa Bianca, su cui Meloni teme di farsi scavalcare tanto da Matteo Salvini quanto da Giuseppe Conte). Se l’elenco dei leader maggiormente impegnati per la «pace» – Orbán, Trump, Salvini – non basta a farvi sorgere qualche dubbio, forse dovreste leggere cosa capita ai bambini ucraini deportati in Russia, e come Mosca provveda a “rieducarli”.
In linea generale, prima di parlare con leggerezza di accordi, compromessi e concessioni territoriali, bisognerebbe sempre domandarsi cosa succeda nei territori occupati. Non è difficile trovare la risposta, basta ascoltare le testimonianze raccolte nelle zone che l’esercito ucraino è riuscito a liberare, a proposito di stragi di civili, camere di tortura, stupri di massa. Eppure nessuna di queste considerazioni sembra capace di invertire la piega presa dal nostro dibattito pubblico in questi due anni. Una deriva che fa a pugni con la logica, prima ancora che con l’etica. Fino al giorno prima dell’invasione del 2022, per ignoranza, disinteresse o ingenuità, era pur comprensibile nutrire dei dubbi su torti e ragioni di una vicenda lontana e apparentemente complicata, tra accuse incrociate di violenze e addirittura di genocidio. Ma non il giorno dopo. Non dopo avere visto le colonne di carri armati russi puntare direttamente su Kyjiv. Non dopo Bucha e le altre città divenute tristemente famose per le atrocità commesse dagli occupanti. E non si tratta solo dei propagandisti più spudorati o delle macchiette generate dalla necessità di fare ascolto in tv (nella migliore delle ipotesi). La guerra, proprio come la pandemia, ha dimostrato purtroppo che anche illustri filosofi, gente capace di discutere di Heidegger in tedesco, possono cadere vittima delle più ridicole fake news raccattate su google e ripeterle a pappagallo, proprio come lo zio scemo al pranzo di Natale. In fondo, è un fenomeno speculare a quello di cui parlavo qui ieri a partire da un sondaggio su Afd, circa il fatto che gli elettori dei partiti populisti non corrispondono sempre al cliché del maschio bianco anziano e ignorante. Come sempre, insomma, ci sono più cose tra cielo e terra di quante ne sogni la nostra filosofia. Ultimamente, però, non è che sia un gran bel vedere.