Come definire l’invito di Emmanuel Macron a non escludere l’invio di truppe occidentali in Ucraina? È una conversione sulla via di Damasco per un presidente che ha coltivato a lungo il dialogo con Vladimir Putin, sostenendo che la Russia non dovesse essere umiliata e, fino a poco tempo fa, ripeteva costantemente che la Francia non era in guerra con la Russia? Potrebbe essere. Ma nulla è meno certo. Il momento non è casuale. Le elezioni europee si avvicinano e i sondaggi non promettono niente di buono. Il partito del presidente si attesta al diciotto-diciannove per cento, quattro punti in meno rispetto al 2019, mentre il Rassemblement National di Marine Le Pen dovrebbe guadagnare cinque o sei punti, arrivando al ventotto-ventinove o addirittura al trenta per cento. Se i risultati elettorali dovessero rispecchiare più o meno queste previsioni, le conseguenze in Francia sarebbero relativamente limitate, a tre anni dalle prossime elezioni presidenziali, viste le caratteristiche del sistema istituzionale francese. Non potrebbe dirsi lo stesso a livello europeo, dove la posizione del presidente francese risulterebbe notevolmente indebolita.
In un simile contesto, adottando una posizione più decisa, almeno in apparenza, di quella di tutti gli altri capi di Stato e di governo dei paesi della coalizione di Ramstein, Macron mira a dividere l’elettorato e a presentarsi a tutti i francesi favorevoli all’Ucraina come il loro paladino. A parte alcuni esponenti di spicco del Partito socialista, in particolare l’ex presidente François Hollande e l’eurodeputato Raphaël Glucksman, la concorrenza in questo mercato politico-elettorale è inesistente. I Verdi tacciono, non pervenuti, mentre la France Insoumise, Les Républicains e Reconquête sono tutti sostenitori più o meno vocali, ma molto reali del padrone del Cremlino. Per quanto riguarda il Rassemblement National, il tempo ci dirà se la recente dichiarazione di Marine Le Pen a favore dell’Ucraina è il segno di una vera inversione di rotta.
Da un punto di vista elettorale, la nuova posizione del presidente Macron è perfettamente comprensibile. Diplomaticamente è tutt’altro che elegante e propizia, nel momento in cui il presidente degli Stati Uniti Joe Biden si trova a fronteggiare l’osceno ostruzionismo di alcuni eletti repubblicani sulla questione degli aiuti militari all’Ucraina ed è anche impegnato in una campagna elettorale tanto cruciale, quanto difficile, viste le istanze isolazioniste di Trump. Prende in contropiede sia la Casa Bianca che la Nato, che escludono esplicitamente l’invio di truppe in Ucraina, come lo stesso Biden ha ribadito al Congresso il 7 marzo. Questo è anche ciò che John Kirby, il consigliere per la sicurezza nazionale della Casa Bianca, ha detto in modo più diplomatico ma altrettanto esplicito: «Gli Stati Uniti non hanno alcuna obiezione a che altri paesi dispieghino le loro truppe in Ucraina, perché questa è una decisione sovrana di ogni Paese, ma gli Stati Uniti non intendono dispiegarvi le proprie». In altre parole: andate avanti, ma senza di noi e senza la Nato
Non c’è nulla di sorprendente nella posizione americana. Conferma semplicemente un punto della dottrina seguita da settantacinque anni, che impone di evitare qualsiasi situazione possa portare a un confronto diretto tra l’esercito americano e l’esercito sovietico prima e quello russo poi. Militarmente quello di Macron – un annuncio che somiglia assai poco a un impegno – non corrisponde peraltro a un bisogno dell’Ucraina, come ha ricordato il presidente Zelensky in una intervista dell’11 marzo alla rete Bfmtv, affermando esplicitamente: «Fino a che l’Ucraina resisterà, le truppe francesi potranno rimanere in territorio francese».
Tecnicamente, l’annuncio di Macron ignora le reali capacità della Francia. Il contingente che l’esercito francese potrebbe inviare non supera i ventimila soldati, la produzione di proiettili da centocinquantacinque mm quella di tremila unità al mese. Non proprio un game changer. Per quanto riguarda il livello dell’intelligence francese, lo scenario recentemente paventato dal presidente – una presa di Odessa da parte dell’esercito russo – suggerisce che esso rimane modesto come al tempo dell’invasione russa, che questi stessi servizi non avevano previsto.
Da un punto di vista strategico, la posizione di Macron si basa su una lettura fondamentalmente errata del ruolo che possono svolgere i diversi attori e, in particolare, la Francia. Ciò è tanto più sorprendente in quanto la guerra in Ucraina non ha fatto altro che confermare l’ovvio: solo gli Stati Uniti hanno, insieme agli inglesi, un servizio di intelligence veramente operativo e solo gli Stati Uniti sono in grado di controllare i rischi di un’escalation nucleare, perché sono gli unici in grado di rispondere a un attacco nucleare con una devastante risposta convenzionale (escalation orizzontale).
Il Regno Unito e la Francia, detentori di armi nucleari, non possiedono queste capacità convenzionali, né la capacità di proiezione globale degli Stati Uniti. Con il pragmatismo che li caratterizza, gli inglesi lo hanno capito bene. La forza di deterrenza nucleare di questi due paesi consente, al massimo, una tutela dei rispettivi territori e neppure di tutti. La deterrenza di Parigi infatti non sarebbe efficace se i territori francesi nell’Oceano Indiano o nel Pacifico fossero attaccati da una potenza ostile con mezzi militari significativi. Quella dei britannici neanche. Solo gli Stati Uniti detengono questo potere di deterrenza globale che, in ultima istanza, garantisce la sicurezza dei territori francesi e britannici d’oltremare.
Inoltre, è difficile immaginare come, senza gli Stati Uniti, i due Stati protetti dalla deterrenza nucleare potrebbero riconquistare il resto dell’Europa se questa fosse occupata da una potenza ostile. Nell’intervento in Libia del 2011, Francia e Regno Unito hanno dovuto ricorrere rapidamente all’aiuto degli Stati Uniti e della Nato per far fronte alla scarsità di munizioni e a carenze in termini di intelligence. Se poi si tiene conto dell’entità dell’influenza del partito filo-Cremlino in Francia, non si può escludere che, sulla base del famoso adagio del generale de Gaulle: «Gli Stati non hanno amici, hanno solo interessi», prevarrebbe rapidamente una politica di accomodamento ragionevole con il nuovo vicino.
Sulla base di questa osservazione, si può ragionevolmente dedurre che il solo possesso di armi nucleari non conferisce al paese che le possiede alcun ruolo particolare, alcuna prerogativa che lo distingua dagli altri membri dell’Alleanza Atlantica. Così come si può dedurre, con tutto il rispetto per chi ha il gusto degli orpelli, che lo status di membro permanente del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite non conferisce di per sé alcun ruolo particolare ai suoi membri.
Certamente, come ha dimostrato la guerra in Ucraina, l’Unione Europea ha un certo grado di autonomia strategica attraverso i mezzi economici, legali e finanziari che può assicurare, compresa la fornitura di armamenti. Ma l’Ue e i suoi Stati membri possono metterli a disposizione solo perché la maggior parte degli Stati membri dell’Unione sono in ultima analisi difesi dalla Nato e perché – con e attraverso la Nato – gli Stati Uniti hanno definito una strategia generale di sostegno all’Ucraina.
L’obiettivo politico del presidente Macron non è solo elettorale. Per lui si tratta anche di cercare di recuperare il credito perduto nei confronti di molti paesi dell’Europa centrale e settentrionale dopo due anni di procrastinazioni. A leggere le dichiarazioni del presidente della Lituania Gitanas Nauséda, del presidente della Lettonia Edgar Rinkevich, del ministro degli Esteri polacco Radoslaw Sikorski, del ministro degli Esteri finlandese Elina Valtonen o del primo ministro dell’Estonia Kaja Kallas, il nuovo atteggiamento del presidente Macron sembra aver suscitato più interesse della sua grottesca caricatura degli aiuti militari forniti dalla Germania all’Ucraina e delle politiche del cancelliere Scholz: «Molti di quelli che oggi dicono “mai, mai!”, sono le stesse persone che dicevano “mai, mai carri armati, mai, mai aerei, mai, mai missili a lungo raggio”».
Naturalmente la Germania può e deve fare di più. Anche gli Stati Uniti che, senza aspettare il voto del Congresso, potrebbero eliminare le restrizioni sull’uso delle armi occidentali, in particolare per obiettivi militari, come i bombardieri strategici che lanciano bombe dal territorio russo. Ciò non toglie che a Riga, come a Varsavia, Vilnius, Tallinn o Helsinki, tutti sanno che gli aiuti militari bilaterali forniti dalla Germania all’Ucraina negli ultimi due anni ammontano a oltre diciassette miliardi di euro. Non si tratta solo di sacchi a pelo e caschi, del resto forniti anche dalla Francia. È alla Germania che dobbiamo la consegna di gran parte dei sistemi antimissile, più di cinquanta cannoni antiaerei semoventi Gepard. È ancora una volta alla Germania che dobbiamo una parte significativa delle munizioni. Da parte sua, l’aiuto militare bilaterale della Francia è decisamente più modesto: circa due miliardi di euro. Otto volte meno in termini assoluti, sei volte meno in termini relativi sul Prodotto interno lordo rispetto alla Germania.
Questa lettura selettiva è particolarmente sorprendente nel caso di Kaja Kallas, all’origine dell’iniziativa europea per la fornitura di proiettili all’Ucraina. Non si può infatti ignorare che è stata proprio la richiesta francese di limitare l’iniziativa ai soli produttori europei a bloccare l’adozione della decisione europea per quattro o cinque mesi, nella primavera del 2023. Né si può ignorare il fatto che, anche se presto è diventato chiaro che l’UE non sarebbe stata in grado di mantenere il suo impegno di fornire un milione di proiettili all’Ucraina, la Francia ha allora posto il veto al loro acquisto al di fuori dell’UE. Se, come scrive l’editorialista militare Macette Escortert, «la storia militare registrerà che la crisi delle munizioni ucraine in corso dal dicembre 2023 avrà portato alla conquista del saliente di Avdiivka», registrerà anche la schiacciante responsabilità della Francia in questa crisi delle munizioni.
Se, come speriamo, questa crisi verrà superata nelle prossime settimane, lo dovremo soprattutto alla creazione, su iniziativa della Cechia e del suo presidente Petr Pavel, di una coalition of the willing a cui hanno aderito Canada, Danimarca, Paesi Bassi, Lituania, Lettonia, Belgio, Germania e, successivamente, Francia e Portogallo, il cui scopo era di acquistare proiettili al di fuori dell’Ue. È alla luce dell’iniziativa di Praga che l’annuncio della revoca del veto da parte della Francia fatto dal presidente Macron durante la Conferenza di Parigi assume tutto il suo significato. Era semplicemente diventato inoperante.
Possiamo ovviamente criticare la strategia del presidente Biden, nella sua logica generale di gestione del rischio di escalation nucleare: le famose linee rosse. Si può anche criticare l’attuazione di questa strategia, cioè la prudentissima graduazione del tipo di armi fornite all’Ucraina e le restrizioni poste per il loro utilizzo. Possiamo rammaricarci che l’Ucraina non abbia ancora ricevuto missili Atacms a lungo raggio (trecento km) o Taurus (cinquecento km).
Possiamo ritenere che questa strategia, che potrebbe essere descritta come volta a dare alla Russia il tempo di fare i conti con la sua sconfitta, sia troppo cauta e non priva del rischio di vedere la Russia ottenere nuovi successi. Non c’è dubbio, però, che le enormi difficoltà incontrate dall’esercito ucraino negli ultimi mesi non sono dovute alla mancata consegna di missili a lungo raggio ma, essenzialmente, alla crisi delle munizioni dell’artiglieria (proiettili da centocinquantacinque mm in particolare), con un rapporto di fuoco oscillante tra dieci a uno e quattordici a uno a favore dell’esercito russo.
La decisione presa dal generale ucraino Zalujny, già nel luglio scorso, di costruire una linea di difesa e fortificazioni lungo la linea del fronte, ripresa e rafforzata dal generale Syrsky, nonché l’intensificarsi della campagna di distruzione delle infrastrutture critiche della Russia da parte dei droni ucraini (fabbriche di armi, aeroporti, porti, raffinerie, ecc.), sembrano tuttavia indicare che esiste una reale convergenza tra l’approccio strategico della Nato e quello dell’Ucraina.
È su questa base che andrebbero strutturati gli aiuti militari occidentali, distinguendo tra il brevissimo termine – il 2024, e il medio termine – il 2025 e, molto probabilmente, il 2026. Gli aiuti nel brevissimo termine dovrebbero concentrarsi, in quantità, qualità e rapidità sulla fornitura di proiettili, cannoni, sistemi antidroni, equipaggiamenti difensivi nonché sul rafforzamento delle difese antiaeree, come il governo tedesco sembra aver capito bene (più di venti sistemi di difesa aerea sono in fase di consegna o lo saranno a breve da parte della Germania).
Allo stesso tempo, sembra urgente decidere e pianificare molto rapidamente le consegne di armi che consentiranno all’Ucraina di riconquistare tutti i territori occupati. Ciò include la produzione e la fornitura di centinaia di aerei, elicotteri, missili, ecc. A causa del tempo necessario per la loro produzione e la formazione di piloti, ingegneri, tecnici e operatori, nonché per la preparazione delle infrastrutture, queste decisioni dovrebbero essere prese molto velocemente. Queste armi, ad esempio aerei, elicotteri, Storm Shadow e missili Scalp, non superano le linee rosse esistenti al momento. Tutte queste armi sono già state fornite dall’uno o dall’altro paese membro della coalizione Ramstein o sono in procinto di esserlo (F-16).
Sarebbe in ogni caso semplicistico e riduttivo interpretare la nuova posizione del presidente francese alla luce delle sole elezioni europee o dell’obiettivo di recuperare il credito perduto nei confronti di alcuni paesi dell’Europa centrale e orientale. Questa posizione è anche parte di un antico miraggio pre-macroniano, quello di un’Europa della difesa articolata attorno alla leadership francese.
Questa ambizione è, come abbiamo visto, militarmente impraticabile. Inoltre, se nessuno contesta l’eccellenza dell’esercito francese, quest’ultimo non ne avrebbe comunque il monopolio europeo. Nell’albo delle eccellenze dovrebbe essere annoverato anche l’esercito finlandese, erede di quello che nel 1940, quarant’anni prima del comandante Massoud, inflisse da solo schiaccianti sconfitte all’Armata Rossa. Resta il fatto che l’esercito francese e l’esercito finlandese non sono paragonabili: il bilancio del primo (53,3 miliardi di euro) è otto volte superiore a quello del secondo (6,9 miliardi di euro). Allo stesso modo, gli eserciti francese e americano non sono paragonabili. Il bilancio della difesa francese è quindici volte inferiore a quello degli Stati Uniti (786,5 miliardi di euro). Da un punto di vista politico, questa ambizione francese non è affatto più convincente che da quello militare. La visione francese della difesa europea si fonda sul postulato secondo cui, come ultima ratio, uno Stato membro deciderebbe per tutti gli altri. Un approccio assai poco conciliabile con i principi e le regole che regolano il funzionamento dell’Unione europea.
Come se vecchi riflessi reverenziali fossero ancora all’opera, la radicale incompatibilità di questa ambizione francese con il progetto europeo non sembra smuovere le autorità politiche degli altri paesi membri. Lo dimostra, ad esempio, la mancata reazione alla proposta della presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen di creare una carica di commissario europeo alla difesa, mettendo ancora una volta il carro davanti ai buoi. Le tre questioni preliminari: gli obiettivi di questa politica di difesa comune, il quadro istituzionale che dovrebbe disciplinarla e gli strumenti della sua attuazione (esercito comune, servizi di intelligence comuni, ecc.) non sono state neppure affrontate, ma scavalcate in questa fuga in avanti retorica.
Stessa corsa a capofitto da parte di Thierry Breton, autoproclamato commissario europeo alla Difesa: «Le commissaire européen à la défense, c’est moi!». Non contento di aver contribuito al deplorevole fiasco europeo della fornitura di un milione di proiettili all’Ucraina, propone un nuovo piano d’azione che imporrebbe ai paesi membri di acquistare entro il 2030 la metà delle attrezzature militari sul mercato europeo. Così, per la magia di un nuovo decreto, le armi prodotte dagli industriali europei diventerebbero ipso facto le più adatte. Allo stesso tempo, verrebbe messo in discussione il contributo implicito agli sforzi di difesa degli Stati Uniti in Europa costituito dall’acquisto da parte degli Stati membri della Nato di armamenti di produzione americana.
È vero che la guerra in Ucraina rimette urgentemente all’ordine del giorno la questione della difesa del continente da parte degli stati europei: ma questa è una questione che può essere affrontata solo all’interno del quadro Nato. L’ostruzionismo della Francia sulla questione della fornitura di munizioni, nonché l’ostruzionismo sistematico dell’Ungheria su tutti i piani di aiuto all’Ucraina non hanno fatto altro che confermare che, allo stato attuale, le istituzioni dell’Unione europea e gli Stati membri non sono in grado di fornire una risposta a questa domanda in tempi utili.
Più fondamentalmente, i primi due anni di guerra hanno dimostrato che due letture politiche radicalmente diverse continuano a coesistere all’interno dell’Unione Europea. Quella di chi vuole che l’Ucraina vinca questa guerra e quella di chi vuole che «la Russia non vinca questa guerra», come ha dichiarato il presidente francese. Questa formulazione, sulla falsariga di quella secondo cui «non dobbiamo umiliare la Russia», non deve nulla al caso. La Francia rimane il principale investitore straniero in Russia. La Francia è in prima linea nel chiedere maggiori restrizioni sulle importazioni agricole dall’Ucraina. Ma non sostiene, come ha proposto la Polonia, un embargo sulle importazioni di prodotti agricoli dalla Russia. Secondo maggiore esportatore di armi al mondo, la Francia occupa tuttavia solo il quindicesimo o il sedicesimo posto negli aiuti militari bilaterali all’Ucraina.
La proposta del presidente francese di non escludere l’invio di truppe in Ucraina quindi non è solo negativa in quanto distoglie l’attenzione da quella che deve costituire la priorità assoluta di tutti i membri della coalizione Ramstein, ovvero il massiccio e rapido rifornimento di armi, ma anche perché rientra nella prospettiva di un compromesso che andrebbe a scapito degli ucraini e del diritto internazionale. Da questo punto di vista, specificare, come ha fatto il presidente francese, che «l’integrità territoriale dell’Ucraina sarà un valore fondamentale», significa di fatto implicitamente ritenere che essa possa essere oggetto del negoziato.
Come dimostra la relativa moderazione delle reazioni di Mosca alla proposta di Macron, essa non costituisce, al di là delle apparenze, una vera rottura con la politica seguita finora da Parigi. È l’ennesima quadratura del cerchio, il tentativo di combinare una serie di istanze caratteristiche della visione macroniana: la preservazione degli interessi economici francesi in Russia, l’ambizione di leadership all’interno dell’Unione europea, lo sfruttamento della causa ucraina a uso interno, il desiderio di indebolire la leadership americana, la speranza di (ri)diventare un partner privilegiato della Russia una volta finita la guerra e l’ambizione di potersi affermare come forza di pace in grado di imporre la mediazione tra Russia e Ucraina.
La modestia degli aiuti militari bilaterali all’Ucraina rientra in questa alchimia: fornire quanto basta per mantenere una certa credibilità agli occhi di Kyjiv e dei partner della coalizione occidentale, ma non troppo per non perdere il contatto con Mosca. L’annuncio in pompa magna dell’invio di settantacinque canoni Caesar nel corso del prossimo anno rientra in questa categoria: trecento milioni di euro sono meno dell’ultima tranche di aiuti militari (la quindicesima almeno) proveniente dalla Danimarca, che ha fornito dall’inizio del conflitto all’Ucraina 8,4 miliardi di aiuti militari, quattro volte più della Francia in termini assoluti, con un Pil di otto volte inferiore.
Solo una cosa potrebbe dissipare questa ambiguità: la fornitura da parte della Francia di aiuti militari su larga scala, sia qualitativamente che quantitativamente: cinauqnata aerei da caccia Rafale, per esempio. Come ha affermato da Eric Trappier, Ceo di Dassault Aviation, le capacità industriali esistono. Ma ciò rimarrà improbabile finché non vi sarà una reale consapevolezza della natura del regime russo e finché non si affermerà chiaramente che l’obiettivo perseguito è la vittoria dell’Ucraina e la sconfitta della Russia, cioè la fine del putinismo come regime di guerra permanente e globale. Nell’attesa bisognerà senza dubbio ispirarsi al modello ceco e creare una nuova coalition of the willing per la fornitura di centinaia di aerei (F-16 o Gripen), elicotteri e missili e tutto quello che serve all’Ucraina per vincere la guerra che Putin deve perdere.