Ad accogliere i visitatori all’ingresso della Fondazione Merz di Torino è una tenda in velluto rosso, come il sipario di un vecchio teatro. È quasi mezzogiorno e inaspettatamente la giornata si è aperta in un cielo azzurro meraviglioso e il sole illumina la stanza dalle grandi vetrate dell’edificio. Così che quel tendone sembra quasi fuori posto, un territorio altro rispetto al suo habitat naturale: sul fondo di una platea, illuminata dalla luce artificiale per fare accomodare il pubblico dello spettacolo che la tenda promette di svelare. Ma fuori, in quel caso, c’è la sera. Qui invece il sipario ci accoglie di giorno con un messaggio ricamato sopra il velluto: TUTTO. È un’opera del 2018 di Matilde Cassani, artista di Domodossola classe 1980, che apre la mostra Sacro è, curata da Giulia Turconi. Lo spaesamento è un’interpretazione del sacro, che per il dizionario è qualcosa di connesso all’esperienza di una realtà totalmente diversa, rispetto alla quale l’uomo si sente radicalmente inferiore, subendone l’azione e restandone atterrito e insieme affascinato. Uno spettacolo sublime.
Forse è quello che ci promette il sipario di Cassani, con quel TUTTO a indicare una comunità, ma soprattutto un’esperienza sincretica e una ritualità condivisa, per tutti. È questa l’opera scelta per dare il via all’esposizione, ispirata alla raccolta di poesie di Franco Arminio, “Sacro Minore” (Einaudi). La tenda segna la soglia da oltrepassare per immergerci nell’idea del sacro secondo gli artisti selezionati da Turconi: si attraversa lo spazio occupato dal sipario che, come dice Cassani, dal punto di vista architettonico e performativo, crea lo spazio. A tutti gli artisti in mostra è stato chiesto di definire il sacro in versi, a proseguire idealmente il titolo della mostra.
Per Cassani, «Sacro è/ciò che sta oltre la soglia/che il credente attraversa/partendo dal profano». La sua opera è parte di un progetto più ampio presentato a Manifesta 12 a Palermo come riflessione sul barocco siciliano. Oltre il drappo rosso ci accoglie una musica barocca suonata in una sala ricoperta di teli di plastica che ne divide gli spazi. Richiama la leggerezza il materiale scelto, ma anche la finzione e il bisogno di un disvelamento. Richiama anche i lavori di Mario Merz, padrone di casa. Ma l’opera di Giuseppe Di Liberto è altro ancora. Si intitola Sparge la morte, una performance site specific con madrigali barocchi composti da Carlo Gesualdo ed eseguiti dal vivo e due artisti, Giuseppe e Davide Di Liberto, che mettono in scena un rituale.
Per Di Liberto, «sacro è/ ciò che rimane» e una profonda riflessione sulla morte è resa in forma di spettacolo. Ma l’ispirazione viene da una passeggiata nel cimitero Le Fontanelle di Napoli, dove l’attenzione degli artisti è stata catturata da teli di plastica a ricoprire le tombe. Sulla scia degli studi di Ernesto di Martino, spiega Di Liberto, «ci muoviamo sul limitare di vita e morte, di presenza e assenza in un rivelamento e disvelamento delle salme». Molto suggestivo, ma anche arcaico, remoto questo rituale pubblico e conduce, anche se entro i canoni cattolici, a qualcosa di ancestrale e profondamente umano. Drappi di plastica e poi una tenda nera a fare da porta chiudono la scatola magica performativa per aprirci a uno spazio di luce che ospita diversi lavori. Il primo è quello di Quynh Lâm, artista di Saigon, Vietnam, del 1988. Animo poetico e gentile, Quynh Lâm sceglie un verso memorabile di Emily Dickinson per scriverlo sul muro con colori che ha ottenuto dai pigmenti dei fori: «Dì tutta la verità, ma dilla obliqua». La verità, secondo questa artista, va svelata nel tempo, piano piano.
Così ha scelto i fiori freschi che in mostra si deterioreranno. Lei è custode ma anche becchino di quei fiori recisi che vuole seppellire all’interno di un rituale solenne, politico, a volte anche proibito, per avvicinarsi a un’idea di sacro impossibile da concepire nella sua interezza, nell’istante. Occorre tempo. Occorre una via obliqua. La poesia della Dickinson procede da quel primo verso così: «il successo è nel cerchio / sarebbe troppa luce per la nostra / debole gioia / la superba sorpresa del vero / Come il lampo è accettato dal bambino/ se con dolci parole lo si attenua / così la verità può gradualmente / illuminare – altrimenti ci accieca».
GianMarco Porru (Oristano, 1989) trova il segreto del sacro nel fuoco, ma ci parla d’acqua con l’opera Uma Fonte, risultato di una residenza a Rio de Janeiro durante la quale ha studiato l’acqua come soggetto e protagonista nelle religioni sincretiche, in un intreccio tra spiritualità, estasi e architettura. Come facciamo noi esseri umani a raggiungere un’estasi segreta? In che modo raggiungiamo il benessere? La risposta è un luogo collettivo, che porta il sacro nello spazio urbano. E così la sua opera è una fontana fantastica che racchiude simboli e mitologie intorno al mistero e al piacere, legati all’acqua, al mare e alle maree, alla luna e anche alla trance. L’allestimento è spaesante anche in questo caso: la piscina è in verticale, ma il vano scala che conduce al piano di sotto ne continua la storia in orizzontale… quasi a richiamare l’idea dell’immersione.
La fiaba continua, o forse è solo un dar forma a una mitologia che informa di sé l’idea di sacro che ci portiamo dentro. E si raggiunge l’opera Soupe Primordiale della francese Tiphaine Calmettes (Ivry-Sur-Seine, 1988): due creature argillose, buffe anche, e una panchina zoomorfa dello stesso materiale accolgono il pubblico e lo nutrono: la zuppa primordiale infatti è stata cucinata la mattina dell’inaugurazione per essere offerta ai visitatori dalla “pancia” di questa creatura portatrice di mestoli, mentre la “collega” offre del tè, mantenuto caldo nel suo stomaco, da degustare seduti sulla panchina. Cos’è il sacro? Il nostro fuoco interiore, risponde l’artista, «e lo si incontra nei luoghi più insperati». I suoi gargoyle, queste creature-sculture in terra e argilla, sono in continua trasformazione: i materiali cedono, subiscono infiltrazioni, si crepano, in un’idea che richiama quella del brodo primordiale, un ambiente caldo e appiccicoso che consente la creazione della vita.
Si giunge poi al lavoro di Lorenzo Montinaro (Taranto, 1997): una cappella con degli inginocchiatoi in legno bruciato conservano le impronte delle ginocchia e dei gomiti dei fedeli, davanti a un altare solo indicato dalla presenza della pala, composta però da cocci di lapidi frantumate, mentre alle loro spalle uno scaffale metallico conserva dei ceri. Sono stati recuperati dall’artista al Cimitero Monumentale di Milano con l’idea di archiviare e conservare le preghiere, i pensieri e le speranze che hanno assorbito nel tempo. Presenze e assenze. Sono loro i protagonisti dell’opera, che sembra voler inscenare l’eternità di un momento universale in cui tutto sembra destinato a sparire ma resiste nel suo permanere nel silenzio.
Era già installata quest’opera quando Quynh Lâm stava lavorando alla propria. Le ha fatto venire i brividi, mi ha detto, mentre al bookshop guardavamo lo stesso libriccino e i suoi fiori sono entrati in relazione con quell’austero vuoto riempito dall’assenza. Il video a due canali di Tommy Malekoff (South Boston, Virginia, 1992) ci catapulta in un’altra realtà ancora. Desire Lines, questo il titolo, è il risultato di un’indagine di due anni incentrata sui parcheggi. Descritti da Robert Smithson come cliché dell’infinito sono per Malekoff luoghi surreali ricchi di potenzialità.
Il non luogo diventa territorio espressivo delle comunità più diverse. Le strisce bianche dei posti auto diventano così linee non trasgreditili di balli individuali o performance artistiche, così come di allenamenti di gruppo e coreografie collettive, in un’attivazione dello spazio neutro e uniforme come palcoscenico di rituali o atti della nostra società. Il sacro forse è allora lo spazio che accoglie (rappresenta?) la perseveranza e la delicatezza della vita. Conclude l’esposizione il video di Lena Kuzmich (Vienna, 1998), artista non binary e multidisciplinare che in Chimera esamina l’ecologia queer e non binaria della natura. Cosa definisce l’essere umano come specie? E come possiamo noi, esseri viventi in simbiosi con la tecnologia, rientrare nella categoria di natura? In un collage in forma di video che cattura immaginari e mondi iconici del nostro tempo, Kuzmich tenta di dare delle risposte, che forse non sono che altre domande.
Due opere, una di Marisa e una di Mario Merz dialogano con quelle dei giovani, a creare un filo conduttore nel fare arte e dare un segno della loro ospitalità. Sacra, come una zuppa primordiale, un mazzo di fiori recisi, una preghiera, un rituale, un luogo di incontro, libero e aperto a tutti gli esseri viventi e una soglia, da oltrepassare per cogliere ciò che è sacro. Ah, dimenticavo: Pier Paolo Pasolini. Poteva mancare la proiezione del suo Teorema? La curatrice lo ha inserito in cartellone.