Patto d’acciaioL’ambiguità di Salvini sulla Russia e i tre nodi che il governo Meloni dovrà sciogliere

Il commento fuori luogo del segretario della Lega sulle elezioni farsa di Putin crea un problema politico da non sottovalutare. Non è un semplice deputato: è il vice presidente del Consiglio e i suoi parlamentari sono indispensabili a tenere in vita l’esecutivo sia alla Camera che al Senato

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«Quando un popolo vota ha sempre ragione» dichiarò Matteo Salvini all’indomani delle elezioni in Russia. Più o meno le parole usate da Roberto Farinacci, ras di Cremona, dopo il plebiscito del 1929 che elesse una Camera interamente fascista. Votarono, allora, l’89,86 per cento degli italiani. A favore il 98,5 per cento, contro il restante 1,5 per cento, un manipolo di eroi. Seggi presidiati, voto tutt’altro che segreto. Putin è stato rieletto presidente con l’ottantasette per cento dei voti espressi dal settantasette per cento degli aventi diritto. Anche in Russia seggi controllati, militare di vigilanza, voto a cielo aperto, assenza di candidati alternativi, oppositori in carcere, al bando oppure sepolti sotto un metro di terra.

Che il vice presidente del Consiglio dei ministri inneggi al voto libero e segreto a fronte del contrario non è questione da sottovalutare. Non è il leader di un partito a dichiarare una pericolosa assurdità, una bestemmia in chiesa, è un uomo di governo i cui parlamentari sono indispensabili a tenere in vita l’esecutivo sia alla Camera che al Senato. Senza i leghisti non c’è maggioranza. E ha torto Antonio Tajani quando scrive che la politica estera la fa in esclusiva il ministro degli Esteri. Dovrebbe rileggersi l’art. 95 della Costituzione. Eccolo: «Il presidente del Consiglio dirige la politica generale del Governo e ne è responsabile.I ministri sono responsabili collegialmente degli atti del consiglio dei ministri». Più chiaro di così.

Secondo problema. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni dialogava con Putin dall’opposizione e ora che è al governo è legata a doppio filo agli americani. Posizioni inconciliabili. E se le elezioni di novembre le vincesse Donald Trump, evento niente affatto improbabile? Trump ha dichiarato più volte che finanziare la resistenza ucraina non è proprio nelle sue corde. Meloni, nel caso, tornerebbe alle origini o si manterrebbe fedele agli impegni assunti?

Terzo problema. Con la libertà non si scherza. Il poeta Mario Luzi amava dire che «la libertà è una palestra nella quale andare ogni giorno se no muore». Aveva ragione da vendere. E invece quel che non ti aspetti, si rivela. Inutile girarci intorno: viviamo in un’atmosfera sospesa, come se dovesse liberarsi lo spirito dalla bottiglia. Uno spirito che non ci piace perché troppo spesso confligge con i cardini della democrazia liberale.

I poliziotti che manganellano ragazze e ragazzi, centurie di braccia tese, Putin forever, il ritardo con cui è partito il bando per celebrare il centenario di Giacomo Matteotti. Ecco, proprio lui avrebbe dovuto essere l’esempio da seguire e invece ci tocca assistere, non inermi, al salto da Matteotti al Matteo dell’alta Padania, dal patto d’acciaio con la libertà al patto d’acciaio con un dittatore.

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