Il via libera del parlamento ungherese all’ingresso svedese nella Nato, dietro nulla osta di Viktor Orbán, porta in dote un nuovo membro che costituirà il settimo Paese per estensione territoriale e il decimo per Pil. L’ingresso nell’Alleanza Atlantica costituisce la picconata definitiva al principio di neutralità stabilito a Stoccolma in occasione del Congresso di Vienna del 1814, dove la Svezia ottenne il possesso della Norvegia (poi indipendente quasi un secolo dopo) e stabilì di non doversi più occupare di questioni belliche da lì in avanti.
Questa neutralità ha permesso alla Svezia di farsi relativamente gli affari suoi durante la Prima Guerra Mondiale e di stare alla finestra durante la Seconda, assumendo un ruolo controverso che ha garantito allo stesso tempo la salvezza di vite umane di svedesi e rifugiati, spesso ebrei, che fuggivano dai Paesi limitrofi, ma anche il passaggio di truppe tedesche dirette in Norvegia. Con l’ingresso della Svezia nell’Unione europea nel 1995, il Paese ha intrapreso un impegno di difesa comune suggellato dal Trattato di Lisbona.
Un paradosso di questa neutralità fu che, durante gli anni Cinquanta, la Svezia intraprese un progetto di ricerca per dotarsi di armi nucleari al fine di difendersi da entrambi i blocchi, strategia portata avanti dall’allora premier Tage Erlander e, per alcuni anni, anche dal suo delfino Olof Palme che sarebbe successivamente diventato un paladino della de-escalation atomica.
Questa neutralità non si è riflettuta necessariamente in un disimpegno da parte della difesa, che durante gli anni Cinquanta contava la quarta forza aerea e l’ottava forza navale del mondo e la capacità di mobilitare seicentomila uomini. Dalla metà degli anni Cinquanta la spesa svedese è declinata fino al 2015, quando il campanello d’allarme dell’invasione russa del Donbas e della Crimea imposero un cambio di rotta.
«In Svezia già dopo l’annessione della Crimea nel 2014 era iniziato il lavoro per consolidare la difesa contro aggressioni straniere. Durante gli anni Duemila il contributo alla difesa nazionale è diminuito, allo stesso tempo la politica ha richiesto la partecipazione della Svezia alla gestione di crisi internazionali, collaborando in missioni multilaterali come quella in Afghanistan, oppure nel 2011 in Libia», spiega a Linkiesta Jacob Westberg, docente di Studi Bellici presso l’Alta Scuola Svedese per la Difesa a Stoccolma. «Questo ha fatto sì che la difesa nazionale venisse depotenziata: fino al 1999 potevamo ancora mobilitare fino a tredici brigate, mentre adesso la discussione è se avere a disposizione quattro brigate entro il 2030 oppure se le forze armate debbano operare per averne due pronte in tempi più brevi».
Parlando di spesa militare rapportata alla spesa pubblica, la Svezia è fanalino di coda della regione dal 2007 a oggi, salvo brevi parentesi. La spesa in rapporto al Pil è dal 1997 al di sotto della soglia del due per cento richiesta dalla Nato, ma anche questa è in risalita dal 2018 e il governo ha in programma di raggiungere l’obiettivo già a partire da quest’anno.
Uno dei punti chiave dell’accordo con l’Ungheria per l’accesso alla Nato è l’acquisto da parte di Budapest di quattro caccia modello Gripen-Jas 39, prodotti dalla Saab e oggi in dotazione anche agli eserciti di Brasile e Sudafrica.
Questo spalanca le porte a un altro importante capitolo, ovvero quello dell’industria bellica svedese. Caratterizzata in passato dalla coesistenza di più soggetti (Ffv, Celsius e Bofors, poi spacchettate e cedute), l’industria svedese legata alla difesa è oggi caratterizzata dalla presenza della Saab e della britannica Bae che opera attraverso la fabbrica Hägglunds a Örnsköldsvik e a Karlskoga presso gli stabilimenti che originariamente costituivano la Bofors.
«L’eredità della Guerra Fredda ha reso la Svezia molto competente in materia, non ci sono molti Paesi al mondo in grado di produrre i propri caccia e sottomarini», commenta ancora Westberg. «D’altra parte, se pensiamo alla possibilità di una guerra su larga scala, si registra sia la mancanza di elementi di base quali uniformi e munizioni, sia di armi avanzate per la difesa nazionale. La Finlandia, invece, avendo prestato attenzione alla propria sicurezza nazionale, non si è ritrovata in questa situazione».
L’invasione dell’Ucraina ha generato un sostegno militare decisamente considerevole rispetto a quello italiano (con l’eccezione delle armi pesanti), spagnolo e francese, ma allo stesso tempo inferiore rispetto agli altri Paesi nordici. L’ultimo pacchetto approvato a Stoccolma, non ancora incluso nelle statistiche, è il più sostanzioso dall’inizio del conflitto e include munizioni per il valore di due milioni di corone, trenta imbarcazioni d’assalto, armi per la contraerea e anticarro prodotte dalla Saab.
Un primo segnale di cambiamento era già arrivato dalla decisione, nel 2014, di reintrodurre la lumpen, la leva obbligatoria abolita nel 2010. Oggi è tornata in vigore una mini-naja che coinvolge un numero decisamente inferiore di svedesi rispetto ai decenni passati, alla quale contribuiscono anche le donne.
«La strategia avviata nel 2017», dice Westberg, «è quella di avere a disposizione ufficiali in grado di istruire i coscritti e la loro educazione dura circa tre anni. All’epoca era già stata presa una decisione sull’ampliamento della difesa, ora stiamo parlando di una difesa ancora più ampia, così che i coscritti passino dagli attuali quattro ai seimila all’anno per poi arrivare agli ottomila nel giro di qualche anno».
Il primo gruppo di giovani reintrodotti nella leva è arrivato nel 2018 (classe ‘99). L’anno successivo, le statistiche indicano che hanno preso parte al servizio militare 3.780 maschi e settecentoventi femmine, rispettivamente uno ogni sedici e una ogni settantatré fra i nati nel 2000 (nei dati però sono inclusi anche i residenti stranieri).
«Di questo passo – aggiunge Westberg – nel 2025 saremo a metà del lavoro che si era preventivato concludere nel 2030. La difesa ha previsto che nel 2035 sarà in grado di mobilitare centomila soldati rispetto agli attuali sessantamila».
La posizione geografica della Svezia la espone a una serie di rischi, considerata la vicinanza della Russia. È ancora Westberg a correrci in auto: «La Svezia, al pari della Norvegia, è una base ideale per le truppe di terra, dove ad esempio è possibile conservare materiale in grado di rafforzare rapidamente i confini esterni della Nato. Detto questo, le aree sensibili sono la costa occidentale e il porto di Göteborg, raggiungibili una volta preso il controllo del passaggio tra Baltico e Mare del Nord, poi abbiamo le aree centrali e meridionali del Baltico e qui il possesso dell’isola di Gotland è fondamentale. Già nella relazione della Difesa nel 2020, due anni prima dell’invasione su larga scala dell’Ucraina, si definiva il rischio che Gotland potesse essere coinvolta nel caso la Russia impiegasse missili aerei e marini al fine di impedire alla Nato la possibilità di trasportare rinforzi negli stati Baltici via mare. Allo stesso modo, è fondamentale la difesa delle Åland, oggi demilitarizzate, sia nell’interesse finlandese che svedese, dato che garantiscono il controllo del Baltico settentrionale e sono decisamente troppo vicine a Stoccolma».
La vicinanza geografica tra i Paesi nordici potrebbe condurre anche a una collaborazione più intensa: «Un’area strategica sia via terra che via mare è quella a nord del Circolo Polare Artico, essenziale per la protezione dei confini esterni della Nato. Qui si è addirittura suggerita una collaborazione fra divisioni svedesi, norvegesi e finlandesi. Quando parliamo dell’impegno svedese nel piano di difesa regionale della Nato, si intende che la Svezia possa contribuire con forze navali e aeree nel Baltico, ma anche con la presenza di unità di terra, come ad esempio un battaglione ridotto di seicento elementi che saranno impiegati in Lettonia assieme alla Danimarca. Si è parlato spesso a livello politico di un’unità di intenti militare nell’ambito del modello di mobilitazione della Nato, per il quale sarebbe possibile mobilitare fra i cento e i trecentomila soldati nel giro di un mese. In questo senso, si può ipotizzare uno scenario in cui soldati svedesi, norvegesi e finlandesi stazionano e si esercitano insieme», conclude l’esperto.