Il viceréL’inchiesta sul presidente del Trapani e la solitudine del giornalista investigativo

Giacomo Di Girolamo ha ricostruito minuziosamente la rete delle società e relazioni di Valerio Antonini in una serie di articoli per il suo giornale locale, ricevendo per questo motivo minacce di morte, insulti e striscioni allo stadio

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La cosa bella è che, ogni volta che scrivo, c’è sempre chi cerca i mandanti. O chi mi pensa mentre mi aggiro, magari, come in un racconto di Jorge Luis Borges o di José Saramago, tra labirinti di archivi, con infiniti dossier. Ancora, chi sostiene che organizzi riunioni di redazione notturne come sabba, dove chiedo ai miei, magari incappucciati: chi roviniamo, adesso? E invece il mio segreto è questo: vado a letto presto. Bevo il giusto, non fumo, cammino tanto. La vita è fatta di cose semplici. Come il giornalismo.

Come nascono le storie? Semplice: si comincia sempre a raccontare ciò che si ha accanto. Perché? Perché vuoi rovinare qualcuno, perché ti fa antipatia qualcun altro, perché vuoi mettere zizzania, hai un partito che te lo chiede, o una lobby o entrambe le cose? No, perché, semplicemente, è interessante. Nascono così le storie, le inchieste: c’è un fatto interessante, raccontiamolo. Portiamolo a conoscenza di tutti, sottraiamolo al segreto di pochi.

Ero in auto con il mio amico Nicola Biondo, qualche settimana fa, giornalista bravo e segugio di altri tempi. Percorrevamo la strada verso Catania, dall’altra parte della Sicilia. Tra un cantiere e l’altro, cercando di non distrarmi dalle gincane di cartelli e deviazioni, gli faccio: ma lo sai che noi non abbiamo mai scritto nulla insieme? Lui risponde con uno dei suoi silenzi che vuol dire tanto. E io aggiungo: eppure una storia ce l’ho. E gliela racconto, con precisione, come si detta la traccia di un tema a un esaminando. A Trapani, un anno fa, è arrivato dal nulla un imprenditore romano, Valerio Antonini. Ha un sacco di soldi, e non fa nulla per nasconderlo. Si è comprato la squadra di basket, poi quella di calcio, promette la serie A, investe milioni di euro. Si è comprato anche la televisione locale. Dice di essere un broker internazionale del grano, che compra e vende al Venezuela e ad altri Paesi. Dice che era tipo il migliore amico di Diego Armando Maradona. A Trapani sono tutti con lui. Insomma, in città è arrivato un nuovo vicerè. Chiedo al mio amico Nicola, la scriviamo insieme questa storia?

Nasce così un’inchiesta a puntate che abbiamo pubblicato sul mio giornale, Tp24, dove per la prima volta e in maniera completa abbiamo raccontato la storia di questo imprenditore, mettendo insieme una serie di fatti che cerco di riassumere: Antonini è un broker del grano, fa affari con il Venezuela, come con Cuba e Iran. La sua fortuna nasce grazie all’amicizia con Diego Armando Maradona, che per lui faceva l’intermediario. Un altro pilastro della sua vita, per sua stessa ammissione, è Luigi Bisignani, suo punto di riferimento. Dopo la tv locale, mira a comprarsi anche l’aeroporto di Trapani, che è della Regione. Piccolo particolare: il presidente della Regione è Renato Schifani. Il legale di Antonini è Roberto Schifani, il figlio del presidente. Ha sempre avuto il pallino del calcio, con qualche brutta avventura, prima di scegliere Trapani.

Tracciamo la rete delle sue società, raccogliamo informazioni in mezzo mondo. Siccome ci vuole rigore, intervistiamo anche il tipo, in un’ora e mezzo, e lui risponde con serenità alle nostre domande. Ma quando pubblichiamo già la prima puntata, succede il finimondo. Lui fa come un pazzo, annuncia cataclismi contro di me. E ci sta, ci sono abituato. Quello che non avevo tenuto in considerazione è che quasi un’intera città si rivolta contro di noi. Centinaia di insulti, minacce: tutto prende una piega insidiosa.

Di puntata in puntata la tensione aumenta. Trapela che addirittura l’uomo dei sogni voglia andare via da Trapani. Ignoti tentano di forzare la porta della nostra redazione. E da lì, di episodio in episodio, comincia la nostra processione andata e ritorno verso la Questura. Addirittura imbastisce un programma contro di me. Un’ora e mezzo di monologo in tv, in cui dice cose del tipo: «Non dobbiamo chiamare questo giornalista Giacomo Di Girolamo, ma GDG, non sprechiamo tempo a dire il suo nome». Il popolo, esegue.

Si arriva poi, all’evento clou, la domenica, allo stadio: il Trapani, che milita in serie D ed è prossimo alla promozione, ospita il Reggio Calabria. A un certo punto i tifosi espongono due striscioni: «DI GIROLAMO SCRIBACCHINO PREZZOLATO». Sono diventato l’obiettivo di una tifoseria, della sua curva. La Digos non sa cosa dire, nessuno ha saputo spiegare come quello striscione non autorizzato sia entrato allo stadio, fatto da chi, e su mandato di chi. «Non è morto nessuno», replica il padrone del Trapani, in una seconda intervista sempre nella sua televisione. Dice di non saperne nulla, ma ringrazia i tifosi: «Non c’è re senza popolo».

La colpa nostra, ancora una volta (nostra dei pochi che, per follia o spirito romantico, si ostinano a fare questo mestiere in provincia, e a farlo senza essere provinciali) è di aver raccontato i fatti, aver unito i puntini su una storia che meritava la giusta attenzione giornalistica, con un racconto cioè non da tifosi, ma serio, dettagliato, con le opportune domande e le risposte che siamo riusciti a trovare. È questo che dà senso al mestiere del giornalista. Non immaginavamo però, di suscitare reazioni altrettanto violente e volgari. Dal ventaglio di commenti, offese, minacce, silenzi, e altro, viene fuori un campionario sociologico della Sicilia (o dovrei dire dell’Italia?) da farci una tesi di laurea.

Certo, mi dico, abbiamo sempre a che fare con il vecchio vizio del potere, di ogni potere, che eccita le masse e che vuole che molto rimanga confuso e non conosciuto. Ma non mi abituo mai, non mi ci abituo mai. Un giudice ha provato a convincermi, qualche mese fa: avevo denunciato un tizio per minacce, perché voleva organizzare una spedizione punitiva contro di me. Non denuncio quasi mai nessuno, ma in quell’occasione mi ero preoccupato e si era passato il segno. Il tizio è andato a processo, ma è stato assolto: «Per il lavoro che fa scrive il giudice – Di Girolamo è abituato a ricevere questi messaggi». Fa parte del gioco, insomma.

Però non mi ci abituo e vivo ancora una volta giorni amari. Da un lato ho avuto la solidarietà di molti colleghi, tanti amici, dall’altro lato tra le istituzioni e i politici di Trapani nessuno vuole parlare, nessuno vuole dire una parola. Il giorno dopo la vergognosa esposizione degli striscioni era convocato a Trapani il consiglio comunale. Ho chiesto a un consigliere se avessero detto qualcosa: «Non ci mettere in difficoltà» è stata la risposta. Idem il sindaco e i suoi assessori.

Queste cose ti avvelenano la vita. Ero al bar qualche giorno fa, seduto al tavolo a bere un caffè e a leggere il giornale. Entra un tale. Nel bar deserto sceglie giusto giusto il tavolo dove sono io e il posto di fronte a me. È robusto, tatuato, non lo conosco e non mi sembra un tizio con modi da educanda. Neanche ordina qualcosa. Si siede, un po’ mi guarda, un po’ fruga nel suo cellulare, un po’ guarda in giro. Io non alzo lo sguardo dal giornale. Dopo cinque minuti di nulla, si alza e se ne va. Posso aver paura, ancora una volta, di prendere un caffè al bar?

È facile essere a favore del giornalismo, e del giornalismo di inchiesta, quando è lontano da casa, non tocca la nostra città, la nostra squadra del cuore, l’uomo che ci fa sognare, il nostro padre e padrone. Appartengo a un territorio in vendita, che non smentisce mai la tradizione della Sicilia, e aspetta sempre un dominatore. Ieri come oggi siamo sempre alla ricerca di un vicerè. Io, nel mio piccolo, continuo ad andare a letto presto. 

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