In un biennio – battezzato il «biennio grigio» – scompaiono i partiti che avevano fatto la storia politica della Repubblica (Dc, Pci, Psi), sostituiti da altri apparentemente simili, che alla loro tradizione si richiamano senza tuttavia rastrellare i precedenti consensi (la Dc si divide in Ppi e Ccd, il Pci in Pds e Rifondazione, il Psi si riduce al due per cento e si fraziona in diverse sigle minori), e da nuovi, che nulla hanno a che fare con il sistema dei partiti del dopoguerra, in primis Forza Italia di Silvio Berlusconi (che diviene d’un colpo il primo partito, collocandosi tra il ventuno per cento della quota proporzionale e il ventidue per cento del maggioritario), nonché Alleanza nazionale (tra il tredici per cento e il quindici per cento, contro il cinque per cento del Msi nel 1992).
Risulta evidente come la crisi di sistema abbia favorito lo spostamento a destra dell’elettorato, il positivo risultato delle formazioni «senza storia», la penalizzazione dei partiti e delle formazioni eredi dei tre grandi partiti di massa. Come e quanto incide questo radicale mutamento sul 25 aprile?
Dopo anni di stanca, trascorsi sotto il segno della ritualità e del fiacco tentativo di attualizzazione, il 25 aprile 1994, anche perché cadeva a poca distanza dal voto che aveva visto l’ingresso travolgente di Berlusconi nell’agone politico, era un momento di intensa rivalorizzazione del senso e della politicità della ricorrenza.
Ancora una volta, la discussione si incentrava sulla contestazione – ovvero sulla difesa – del carattere fondativo attribuito alla Resistenza nell’Italia del dopoguerra, sull’attualità o viceversa sulla necessità del superamento dell’antifascismo. Erano in gioco la riconsiderazione dell’intera vicenda politico-sociale del primo cinquantennio repubblicano, la legittimazione di nuove aggregazioni politiche e la fondazione di un nuovo sistema politico-istituzionale basato sul sistema elettorale maggioritario.
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A ridosso del 25 aprile, la manifestazione promossa da Il manifesto, che si è nel frattempo deciso di tenere a Milano, veniva da più parti stigmatizzata per il suo carattere politico: «la mobilitazione – scriveva Mario Cervi – non è per il 25 aprile. È contro: contro la vittoria del polo di centrodestra, contro Berlusconi presidente del Consiglio, contro gli uomini di Fini al governo» (25 aprile, problema inutile, in La Voce, 14 aprile 1994).
Evidente era l’ansia di circoscrivere il 25 aprile nei termini di una festa della libertà ritrovata e della riappacificazione. In tal senso si esprimeva Fini in un’intervista a Paolo Franchi, suggerendo che la prossima giornata di festività fosse «il primo giorno di un anno della riconciliazione […] che riguarda tutta la collettività nazionale, […] la sua capacità di rileggere la nostra storia non per rinnovarne le fratture, ma per guardare avanti». Ma, aggiungeva, «tutto sarebbe più facile se anche in Italia, come nel resto d’Europa, antifascismo fosse sinonimo di antitotalitarismo» (Fini: il mio 25 aprile? Antitotalitario, in Corriere della Sera, 23 aprile 1994); se, come aveva scritto Francesco Alberoni, il 25 aprile celebrasse «il ripudio di tutti i totalitarismi, di tutti i regimi illiberali, di ogni forma di intolleranza politica [per] farne la festa comune della democrazia e della libertà» (Il 25 aprile, festa contro tutti i totalitarismi, in Corriere della Sera, 18 aprile 1994). Dello stesso tenore un editoriale in cui Colletti ripresentava gli argomenti del 1985, insistendo sulle ambiguità dell’antifascismo, generate dall’influenza esercitata dal Pci, certo antifascista, ma non antitotalitario: si reindirizzavano ora alla sinistra che intendeva manifestare a Milano le occhiate sospettose prima riservate al Pci (La democrazia ritrovata, in Corriere della Sera, 24 aprile 1994).
La fine del sistema dei partiti nato tra il 1945 e il 1948, l’assimilazione tra fascismo e comunismo – entrambi riconducibili al totalitarismo, quindi incompatibili con la democrazia – e la conseguente sostituzione dell’antifascismo con l’antitotalitarismo quale fondamento dell’identità politico-civile europea (e italiana), avrebbero finalmente consentito di procedere a una riconciliazione nazionale, nonché a una riconsiderazione della stessa centralità della Resistenza nella nascita della Repubblica, evidenziandone da un canto i limiti – all’origine del degrado etico-politico del sistema – e dall’altro mantenendone fermo il carattere di generica lotta per la libertà, per la conquista della democrazia.
Della manifestazione di Milano, svoltasi sotto una pioggia battente alla presenza di almeno trecentomila persone, i resoconti e i commenti del resto restituiranno – oltre le consuete note aneddotiche di folklore sugli slogan, i partecipanti, i fischi alla delegazione della Lega e al sindaco Formentini – la natura di una «prova di maturità» per il suo carattere pacifico, che da quel momento avrebbe consentito di trasformare il 25 aprile in una «festa della libertà, della democrazia, della tolleranza» (così Paolo Mieli sul Corriere del 26 aprile). E anche della riconciliazione: a Roma, Alleanza nazionale aveva infatti a tal fine promosso la celebrazione di una messa in ricordo di tutti i caduti, lo stesso provvedeva a fare Berlusconi, ma in forma privata, presso la villa di Arcore.
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Tra il 1994 e il 1995, in concomitanza con il cinquantesimo, i densi e numerosi eventi politici incidevano dunque profondamente nella discussione sui significati e sulla valenza da assegnare al 25 aprile. Nella primavera del 1994, con l’assunzione del Msi a responsabilità di governo e, nel gennaio 1995, con la sua definitiva trasformazione in An, coloro che si erano a lungo richiamati esplicitamente al fascismo riconoscevano formalmente il valore dell’antifascismo nel ritorno alla democrazia.
Ciò tuttavia avveniva nel quadro di un’opera di relativizzazione storica, giacché la «volontà di pacificazione» tra gli italiani – che nel 1996 porterà Luciano Violante a invitare alla comprensione delle ragioni dei «ragazzi di Salò» e, su questa via, a incontrare nel marzo 1998 Fini a Trieste per dialogare su «Democrazia e Nazione» – copriva la sostanza del superamento della diade fascismo/antifascismo, considerati alla stregua di momenti del comune passato nazionale da consegnare definitivamente al giudizio della storia.
La profonda crisi del sistema politico-istituzionale allora rappresentava, da una parte, uno stimolo forte alla ricollocazione della Resistenza nella narrazione pubblica come punto fermo nel processo di democratizzazione del paese, ma, dall’altra, un’occasione per l’invenzione di un’altra e diversa Resistenza, adattata a tempi in cerca di nuove forme di coscienza collettiva, in cui l’antifascismo e la guerra partigiana potessero assurgere a motivi di una «religione civile» in base a un «teorema politologico» in grado di comporre un’immagine del 1943-1945 nella quale l’Italia della crisi degli anni Novanta potesse riconoscersi. Gli stessi tentativi a contrario di Renzo De Felice di espellere la Resistenza dall’esiguo patrimonio storicopolitico della Repubblica, contrapponendo e mettendo sullo stesso piano il rosso e il nero, si muovevano in fondo in analoga direzione. Spie di quanto acuta e insinuante fosse quella crisi.
Tratto da “25 aprile” (Il Mulino), di Luca Baldissara, pp. 176, 13€