Pensiero strategico L’importanza di un nuovo allargamento dell’Ue, vent’anni dopo

Dopo il cosiddetto big bang del 2004, Bruxelles riflette sull’entrata di nuovi membri per contrastare l’espansionismo di Putin. Ma per farlo, serve una solida visione politica di integrazione comunitaria, al momento ancora assente

Il prossimo primo maggio l’Unione europea spegnerà venti candeline per celebrare il più grande allargamento della sua storia: il quinto, l’allargamento ad est del 2004 chiamato anche «il big bang» per le dimensioni che assunse. Ben settantacinque milioni di nuovi cittadini e dieci Paesi entrarono in Ue portando quest’ultima da quindici a venticinque membri – e poi a ventisette tre anni dopo, quando fecero il loro ingresso anche Bulgaria e Romania (l’allargamento del 2007 è normalmente considerato uno spin-off di quello del 2004, più che il sesto).

Estonia, Lettonia e Lituania erano repubbliche sovietiche; Cechia, Polonia, Slovacchia e Ungheria facevano parte del Patto di Varsavia; la Slovenia usciva dalla catastrofe della disintegrazione della Jugoslavia; infine, Cipro e Malta erano state colonie britanniche (la prima delle due isole è ancora contesa tra greci e turchi, caso unico in Ue).

Un paio di mesi prima si era verificato un allargamento parallelo nel Vecchio continente: quello della Nato, che aveva accolto Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia e Slovenia, mentre Cechia, Polonia e Ungheria erano entrate nel marzo 1999.

Gli allargamenti di Nato e Ue davano sostanza concreta al sogno dell’indimenticabile biennio 1989-1991, che cambiò il volto dell’Europa: la dissoluzione della Cortina di ferro e l’apertura delle frontiere tra gli Stati centro-orientali, la catena baltica, il crollo del Muro di Berlino (preso a picconate, in quella notte di novembre, anche da un giovane David Sassoli), la riunificazione tedesca e il collasso natalizio dell’Urss dopo il fallito putsch di agosto.

Per celebrare questo anniversario è stata organizzata mercoledì scorso una cerimonia solenne durante l’ultima sessione plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, tenutasi dal 22 al 25 aprile. Oltre agli eurodeputati, l’emiciclo ha ospitato la presidente uscente della Commissione Ursula von der Leyen e molti dei protagonisti di quei giorni: primi ministri, ministri degli esteri e presidenti dei dieci Paesi in carica all’epoca della loro adesione vent’anni fa, più l’allora presidente dell’esecutivo comunitario Romano Prodi, l’allora presidente dell’Eurocamera Pat Cox e l’allora commissario all’Allargamento Günter Verheugen.

«Una specie di miracolo, che oggi non sarebbe possibile ripetere»: l’ex commissario Verheugen definisce in questi termini il big bang del 2004 parlando con Linkiesta. Perché? «All’epoca ci fu un impegno molto forte sia da parte degli Stati Ue che da parte dei Paesi candidati», spiega. Un allineamento degli astri che oggi non si vede all’orizzonte.

In quel momento di genuino entusiasmo, sembrava finalmente realizzata l’idea di un’Europa unita dopo secoli di conflitti intestini, due guerre mondiali e la Guerra fredda. Estendere il perimetro dell’Unione significava proiettare (almeno teoricamente) anche nel fu blocco orientale le missioni di pace e stabilità, democrazia e prosperità economica che i trattati comunitari vogliono inscritte nel Dna stesso del progetto europeo. Fu soprattutto la prima di queste dimensioni a guidare quel processo: la necessità di stabilizzare quel pezzo di continente dopo il collasso dell’Unione sovietica, di riorganizzarlo e strutturarlo integrandolo nella famiglia europea.

Lo conferma a Linkiesta anche l’allora presidente dell’Estonia (la prima donna a ricoprire tale incarico), Vaira Vīke-Freiberga: «Per noi baltici essere accettati in Ue è significato allontanarci quanto più possibile da Mosca».

«Dato che non potevamo muovere il nostro Paese sulla mappa, abbiamo dovuto farlo politicamente. E il Cremlino ha cercato di ostacolare e rallentare la nostra integrazione in Europa», ci spiega. Dopo cinquant’anni di russificazione forzata, la Lettonia stava tornando libera. «Il presidente Putin in persona mi disse che il crollo dell’Urss era una tragedia, che era incredibile che la gente andasse a letto con la cittadinanza sovietica e si svegliasse con quella lettone», ricorda l’ex presidente. Pausa. Poi continua, inorgoglita: «Io gli ho risposto che quello era il giorno più bello della mia vita, per me e per tutti i lettoni».

Il piatto forte della cerimonia in aula a Strasburgo è stato il «botta e risposta», decisamente retorico ma di un certo effetto, tra i dieci esponenti politici nazionali e altrettanti giovani ventenni, in rappresentanza della prima generazione nata dopo l’ingresso nell’Unione. Così, abbiamo sentito l’allora premier ungherese Péter Medgyessy sottolineare che la sovranità nazionale è garantita meglio dall’appartenenza all’Ue che non dallo stare fuori dal blocco, e l’allora ministra degli Esteri estone Kristiina Ojuland ribadire che tra i principali benefici dell’adesione al club europeo c’è stata la garanzia della sicurezza.

L’intervento di Ojuland ha centrato il punto sull’attualità di questo anniversario. L’aggressione russa contro Kyjiv del febbraio 2022 ha completamente stravolto la percezione degli europei circa la propria sicurezza, rendendo improvvisamente credibili gli avvertimenti che i membri baltici e centro-orientali non hanno mai smesso di lanciare. E ha riportato alla ribalta il dibattito sull’allargamento. In questo momento, a bussare alle porte dell’Unione sono Ucraina, Georgia, Moldova e una buona parte dei Balcani occidentali: Albania, Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Nord Macedonia e Serbia.

Come nel 2004, se non ancora di più, oggi l’espansione del club è considerata unanimemente come un imperativo strategico: l’ingresso di nuovi membri nell’orbita europea viene esplicitamente definito uno strumento geopolitico per stabilizzare il continente e contenere le mire imperialiste di Vladimir Putin (nonché contrastare l’influenza economica di Pechino).

Lo dice chiaro e tondo a Linkiesta l’ex ministro degli esteri lituano Antanas Valionis: «È difficile dire dove sarebbe ora il mio Paese se non fosse entrato in Europa e nella Nato, ma vediamo bene cos’è accaduto ai nostri vecchi amici in Moldova, Georgia e Ucraina. Tutti i Paesi che non sono ancora entrati nelle alleanze europee o euroatlantiche si trovano oggi in grossi guai».

La guerra in Ucraina ha cambiato tutto. Ma quello dell’Ucraina è un capitolo particolarmente delicato quando si parla di una nuova espansione della famiglia europea per vari motivi, non solo militari. La critica politica che Verheugen consegna a Linkiesta è che «l’Ue è stata troppo lenta nel fornire all’Ucraina una concreta prospettiva di adesione e non ha incentivato seriamente Kyjiv a intraprendere con decisione il percorso di riforme che servono per entrare nell’Unione».

Certo, «è un Paese difficile, ci sono seri problemi strutturali come la corruzione endemica, l’influenza esorbitante degli oligarchi, i fondamentali economici relativamente deboli», ma queste «non sono motivazioni per rifiutarne l’adesione». Secondo l’ex commissario «avremmo dovuto offrire agli ucraini una prospettiva d’ingresso chiara e credibile molto tempo fa. Ora l’abbiamo fatto ma è chiaro che è una mossa fondamentalmente simbolica: finché c’è la guerra non potranno esserci progressi», ragiona.

E dopo la guerra? C’è chi pensa, come Vīke-Freiberga, che a Kyjiv vada offerto un canale preferenziale per entrare in Ue «per via dell’enorme sofferenza che sta patendo per difenderci dall’imperialismo russo e perché ha una dimensione e un peso geostrategico completamente diverso» dagli altri candidati. Un’idea che, però, non è condivisa unanimemente dalle cancellerie dei Ventisette. Del resto, nota Valionis, «sarà parecchio complesso gestire l’ingresso dell’Ucraina in Ue, perché è il Paese europeo più grosso, ha una popolazione molto numerosa e un settore agricolo fortemente sviluppato e orientato all’export» che potrebbe sconvolgere la politica agricola comune.

Le complessità non si fermano certo alla sola Ucraina. L’ex presidente lettone sottolinea come la situazione fuori dei confini dell’Unione sia in generale molto più difficile oggi di quanto non fosse vent’anni fa. Da un lato, c’è la questione dell’interferenza russa nel cosiddetto spazio post-sovietico. La penetrazione del Cremlino in Georgia è un esempio lampante: «La popolazione ha sempre dimostrato un desiderio ardente di entrare in Europa, si è sempre sentita europea» , ci dice Vīke-Freiberga, «ma purtroppo gli sforzi russi per influenzare politicamente il Paese hanno avuto successo», come abbiamo visto con la legge sugli agenti stranieri, fotocopia di quella della Federazione.

In Moldova, invece, la questione è soprattutto economica: Chisinau «ha fortissimi legami economici con la Russia e non è ancora riuscita a farne a meno, è dipendente». Ma, incalza, «anche la nostra economia era legata a doppio filo a quella russa, però noi a un certo punto abbiamo deciso che dovevamo cercare delle alternative perché la dipendenza da Mosca era troppo pericolosa».

Dall’altro lato, c’è la questione dei Balcani occidentali. I Paesi candidati dell’area hanno ricevuto questo status diversi anni prima di Ucraina, Georgia e Moldova, ma il processo di adesione è in stallo. E le responsabilità sono condivise: è vero che queste nazioni non hanno fatto sufficienti progressi, ritardando riforme importanti.

Ma è anche vero, chiosa Verheugen, che nemmeno Bruxelles ha saputo gestire il processo: «I Balcani hanno ricevuto una promessa già nel 1999 ma non ho visto grande strategia o grande ambizione da parte dell’Ue per soddisfare quella promessa», ammette. «Le aspettative non sono state soddisfatte e non è vero che i Balcani si stanno avvicinando all’Europa. Sono ancora molto distanti, non hanno fatto grandi progressi ma nemmeno noi ne abbiamo fatti per rendere la loro adesione più vicina», sottolinea con grande lucidità.

Occorre fare di più «per accelerare questo processo e per incentivarli a produrre risultati, a partire da buone relazioni tra loro che consolidino la stabilità regionale», continua, citando il rischio di una recrudescenza dei conflitti etnici «se non si interviene per rimuoverli alla radice» .

Insomma, quello che è mancato negli ultimi anni all’Europa è un progetto di lungo termine su come (ri)organizzare un continente che sta venendo scosso in profondità. Ne è convinto l’ex commissario: «Quello che ci serve oggi è una vera strategia, una visione politica. Cosa vogliamo ottenere? Quando vogliamo ottenerlo? Servono obiettivi chiari e una chiara tabella di marcia, servono sforzi coordinati da parte di tutti gli attori coinvolti».

Per allargare ancora l’Ue servirà condurre solide analisi  sulla convergenza tra i potenziali nuovi membri e l’Ue a ventisette, che dovranno essere accompagnate da un’accurata pianificazione per evitare passi falsi (tanto prima quanto dopo l’adesione) e da una previsione quanto più possibile adeguata degli impatti economici del processo.

Il nodo cruciale che i discorsi su un nuovo allargamento, di qualunque entità, devono affrontare è quello delle riforme. Bisogna ripensare il funzionamento di un’Unione che è nata dotata di strutture ancorate ad un mondo che oggi non esiste più.

Per continuare ad essere efficace con trenta o più membri, il club europeo non può mantenere le stesse regole che seguiva quando di membri ne aveva dieci. Si tratta di aggiornare il policy-making ma anche di riformulare l’assetto istituzionale dell’Ue.

«Credo che abbiamo raggiunto il punto di saturazione delle strutture esistenti», commenta Vīke-Freiberga. «Spero che i membri attuali siano pronti a considerarne l’evoluzione, altrimenti corriamo il rischio di diventare disfunzionali come le Nazioni Unite». Tra le prime cose da cambiare, a detta di tutti gli intervistati, il numero dei commissari (che non può eguagliare quello dei Paesi membri) e il ricorso al voto all’unanimità in Consiglio.

È il dilemma eterno tra allargamento e approfondimento dell’integrazione europea. Meglio espandere l’Ue su scala continentale, mantenendo strutture più leggere, o consolidare e radicare queste strutture riducendo le ambizioni territoriali? Verheugen sorride a questa domanda. «Questo dibattito era al centro delle discussioni già negli anni Novanta e Duemila», ci racconta. «Alla fine provammo a portare avanti i due movimenti contemporaneamente: l’allargamento fu un successo, l’approfondimento è stato più difficile». Il trattato di Lisbona è stato un passaggio fondamentale in questo percorso.

«Ma oggi non vedo un consenso sufficiente sugli obiettivi di lungo termine: che tipo di Europa vogliamo? Un superstato federale, una confederazione, un ibrido come quello di oggi?», chiede. Pausa. «Dobbiamo decidere quale risposta dare a questa domanda prima di muoverci ancora, e non vedo una chiara propensione per nessuna di queste opzioni. È fondamentale avere un dibattito serio a livello delle opinioni pubbliche europee su questo punto», ci spiega.

Conclude: «Credo che dobbiamo essere onesti con noi stessi e renderci conto della realtà: se vogliamo vivere in pace nel nostro continente, se vogliamo avere un ruolo sulla scena internazionale e avere un impatto sul futuro del pianeta, non abbiamo alternative ad un’Europa quanto più unita possibile».

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